sabato 31 maggio 2014

Cosi non va! Così non si può continuare!!Lettera aperta a Paolo Ferrero segretario del PRC Nazionale



Caro compagno è la seconda volta che scrivo una lettera su questo blog, la prima la scrissi come esodato a quella delinquente della Fornero dopo la sua devastante quanto classista riforma delle pensioni del dicembre 2011, riforma che ha gettato nella disperazione migliaia di famiglie, a te invece la scrivo come membro del direttivo di Rifondazione comunista di Piombino e come militante attivo nell'associazionismo internazionalista dell'alta Maremma Toscana, sono fortemente deluso e amareggiato sulla rappresentanza italiana della lista Tsipras al parlamento Europeo, a boccie ferme, di fatto ci ritroviamo rappresentati da 2 esponenti legati al quotidiano “la Repubblica” da anni sfacciata lobbie del PD, si tratta di Barbara Spinelli, e Curzio Maltese (entrato purtroppo dopo la rinuncia di Moni Ovadia).....
Maltese come Omero Ciai è conosciuto come un giornalista attivo contro Cuba,..mentre Marco Furfaro tu sai benissimo che il suo capo Vendola avrebbe il piacere di vederlo accanto alla sinistra europea invece che nel GUE.
Per oltre due mesi con altri compagni mi sono
impegnato per far passare il quorum alla lista “l'altra Europa con Tsipras”, tutti i giorni, pur con poche risorse economiche era di routine lo stampaggio di volantini e relativo volantinaggio, montaggio banchetti con tanto di Gazebo, montaggio audio, creazione pagine in Fb, blog's, ...certo nel nostro territorio lavoravamo con passione perchè eravamo motivati per far passare Fabio Amato, un compagno vero e integro nei valori, da sempre impegnato in cause che vanno dalla difesa dei posti di lavoro, come al sostegno del popolo Palestinese o la difesa della Rivoluzione Cubana e rivoluzione Bolivariana, ...senza dimenticare mai il suo impegno per arrivare alla liberazione di Ramon, Antonio, Gerardo, tre dei
Cinque Cubani da oltre 15 anni reclusi ingiustamente nelle carceri dell'Impero USA.

Personalmente ritengo che quello che stiamo facendo come partito sia un gioco che non vale la candela,.... ti sembra normale farsi “ nu mazzo tanto”, fare riunioni organizzative su riunioni, per poi mandare a rapppresentarci persone che hanno poco o nulla a che spartire con il PRC (a parte Fiorenza) e con i bisogni della gente, ….ripeto, come posso sentirmi rappresentato da un essere come Curzio Maltese che presto, quando scriverà contro le cause che sostengo mi toccherà attaccarlo ….mi sembra che dentro il nostro PRC ci sia un qualcosa di sado maso, godiamo a farci male da soli .
Ti posso ricordare che anche per lista Ingroia, fatta ingoiare in fretta e furia con la forza, la macchina organizzativa elettorale fu tutta del PRC, e a votarlo fu proprio solo parte del  PRC , questo dato te lo posso confermare perchè alle elezioni comunali 2014 da soli con il nostro simbolo di partito abbiamo raddoppiato il risultato ottenuto con Ingroia.
Credo che sia arrivato il momento di dire basta agli inciuci che non ci portano niente, questo partito deve organizzarsi con una sua linea ben delineata radicata a sinistra, in un partito piccolo come il nostro non possono convivere due linee che si scontrano, chi vuole andare a fare il tirapiedi al PD deve andare per la sua strada.
Non si può continuare a sentire in rete elementi di rifondazione Comunista, come il responsabile nazionale dei giovani Comunisti che con un linguaggio da pseudo intellettuale rilascia dichiarazioni che leccano e strizzano l'occhio al PD, ventilando congetture di eventuale collaborazione, il tutto poi genera scontri e talvolta insulti tra compagni.
Si Paolo, il risultato giusto delle ultime elezioni avrebbe dovuto essere l'esatto contrario, a sedersi nel parlamento di Bruxelles dovevano esserci tre nostri rappresentanti di partito, nella peggiore delle ipotesi
due, Amato doveva essere la come punto di
riferimento comunista, in parte ti sto dicendo quello che penso ti avranno detto i compagni internazionalisti romani che proprio ieri sono venuti a parlare con te.

Se dentro il partito continueranno a scontrarsi le due anime scaturite dal congresso, la vedo dura ripartire,...
Ok!! il compagno FABIO AMATO non è passato, però vorrei concludere con un piccolo esempio prendendo a campione Piombino la mia città : hanno votato circa 19.500 persone, Tsipras ha preso il 5.70% di voti e Amato 114 Preferenze, a Livorno hanno votato circa 90.000 persone Tispras ha preso il 5.97% Amato ha preso poco più di 100 preferenze....... perchè??? semplice a Piombino la segreteria PRC è sulla linea Ferrero quindi  favorevole ad Amato a Livorno è sulla linea Grassiana,quindi contraria ad Amato ...... Ti pare possibile in questa drammatica situazione del paese, dove disoccupazione e disperazione aumentano a vista d'occhio, dove sullo sfondo non c'è futuro ma solo venti di guerra, la gente possa capire le piccole diatribe di potere del nostro partito, che in realtà dovrebbe essere unito, ed essere di nuovo il punto di riferimento degli ultimi dei senza voce ormai allo sbaraglio...... ebbene ricordarci che le elezioni 2014 le hanno vinte coloro che non sono andati a votare, il 42 % … e quello è il terreno dove il PRC dovrà guardare, ma per recuperare ci vuole credibilità, onestà, e soprattutto modestia, le caratteristiche che vedevo e vedo  in Fabio.

Un abbraccio
Maurizio “ Sandino “ Cerboneschi”

giovedì 29 maggio 2014

GLI ATTUALI CRIMINI DI OBAMA NEL MONDO : - Il presidente oligarca: naturale risultato di Euromaidam - Chi uccide e chi muore in Venezuela





28/05/2014 

Comunicato di Union Borotba (Lotta) sulle "elezioni di sangue" in Ucraina

Le cosiddette elezioni, tenute dalla giunta Kiev il 25 Maggio, non si possono considerare giuste o legittime. Le elezioni tenute nel bel mezzo della guerra civile nella parte orientale del paese e del terrore neonazista nel Sud e Centro, non sono state libere.

Lo stesso corso della campagna elettorale è stato senza precedenti con ogni inimmaginabile violazione delle norme democratiche. I candidati presidenziali sono stati picchiati e non è stata permessa la campagna. Diversi candidati si sono ritirati per protesta contro la farsa.

A Odessa e in altre regioni, sono stati documentati casi di seggi "sorvegliati" da unità ultra-nazionaliste portati da Kiev e dall'Ucraina occidentale. Ciò non può essere definito altro che come una pressione esplicita sugli elettori.

In Crimea e nelle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, le cosiddette elezioni non si sono svolte. Nelle regioni Odessa e Kharkov, i seggi erano quasi vuoti. Molti di coloro che sono andati a votare hanno annullato il loro voto, scrivendo slogan contro la giunta di Kiev. Tuttavia, la cosiddetta Commissione Elettorale Centrale ha dichiarato una partecipazione del 60%!

Migliaia di persone in diverse città del paese sono scese in strada per protestare contro le "elezioni di sangue". Tuttavia, i risultati annunciati dalla giunta saranno riconosciuti dell'obbediente Commissione Elettorale Centrale e dagli osservatori Occidentali.

Va notata l'ipocrisia dei cosiddetti campioni delle elezioni giuste. Essi criticano le elezioni viziate nella Federazione Russa e in altri paesi, ma adesso chiudono un occhio alla palese falsificazione e

flagrante violazione delle "elezioni" del 25 Maggio. Questo dimostra ancora una volta che il criterio dell'"onestà" per l'opinione pubblica liberal ufficiale non è reale rispetto alle procedure elettorali, ma è leale al regime che tiene le elezioni per l'imperialismo occidentale.

Come previsto, il vincitore dell'"elezione" presidenziale è stato il miliardario Poroshenko. Poroshenko, insieme ad altri miliardari come Igor Kolomoisky e Sergei Taruta, è divenuto la personificazione del trasferimento diretto del potere statale ai grandi capitalisti. Poroshenko è il principale esempio della classe dirigente dell'Ucraina "indipendente" – la parassitaria oligarchia borghese che ha saccheggiato il paese negli ultimi 20 anni.

Il percorso politico di Poroshenko è rivelatore. Alla fine degli anni '90 era un membro leale dell'allora Presidente Kučma del Partito Social Democratico d'Ucraina (Unito). Poi fu uno dei fondatori del Partito delle Regioni. Poi - un amico e alleato del presidente Viktor Yushchenko. Un leader lobbista per la cosiddetta "integrazione Europea", Poroshenko è infine diventato uno dei leader e sponsor di Euromaidan.

Non c'è dubbio che Poroshenko continuerà il corso di Turchinov e Yatsenyuk nell'interesse di un sottile strato dell'oligarchia. Poroshenko continuerà la sporca guerra della giunta contro il proprio popolo nel Donbass. Poroshenko continuerà ad attuare le misure antipopolari imposte dal FMI portando il Paese al disastro economico.

Il trasferimento diretto del potere all'oligarchia e il rafforzamento delle tendenze neo-fasciste sono conseguenze dirette di Euromaidan, come Unione Borotba aveva avvertito lo scorso autunno. Solo le persone politicamente molto ingenue potevano aspettarsi un risultato diverso da un movimento guidato da neoliberisti e ultra-nazionalisti, e sponsorizzato dai più grandi capitalisti.

I risultati hanno mostrato una sconfitta devastante per i nazionalisti radicali - e Tyagnybok [leader di

Svoboda] e Yarosh [leader di Settore Destro], che insieme hanno raggiunto solo il 2 %. Il terrore contro il popolo, contro la sinistra e le forze democratiche e lo spiegamento di unità combattenti nazionaliste, non hanno promosso la crescita della popolarità delle forze fasciste. Tuttavia, nonostante il loro scarso sostegno pubblico, l'estrema destra rimarrà un elemento importante del sistema politico della dittatura Kiev. Il loro ruolo è la violenta repressione degli oppositori del regime oligarchico. Questo è il ruolo tipico dei movimenti fascisti.

Noi non riconosciamo l'esito di queste pseudo-elezioni ignorate dalla maggioranza. Noi continueremo la campagna di disobbedienza civile contro la giunta di oligarchi e nazionalisti.

www.resistenze.org

Original :



Chi uccide e chi muore in Venezuela


Modesto Emilio Guerriero | aporrea.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Gli assassini di una delle guardie del corpo del presidente Maduro e di un dirigente chavista di primo piano evidenziano che la campagna della destra, orchestrata a Miami, Colombia e nello stesso Venezuela, viaggia verso una violenza senza freni. Durante i primi giorni di maggio in Venezuela sono stati assassinati in pochi giorni una guardia del corpo del presidente Nicolás Maduro e un personaggio centrale del chavismo, Eliécer Otaiza. Entrambi i fatti hanno fatto scattare l'allarme rosso, procurando un'ansia paragonabile solo a quella sperimentata con la violenza sfrenata tra febbraio e marzo di quest'anno. Otaiza aveva partecipato alla fondazione del movimento chavista o bolivariano, ma quando è stato ammazzato ricopriva un'alta carica rappresentativa nell'amministrazione della capitale. Insieme al fratello gemello, ha accompagnato Hugo Chávez da quando uscì di prigione nel luglio 1994, come guardia nel pellegrinaggio che fece in centinaia di città, paesi, campagne e quartieri venezuelani, nel corso del quale il leader bolivariano diffuse il messaggio del nuovo movimento nazionalista germogliato due anni prima, il 4 febbraio 1992.

Nel mondo, non si ammazzano guardie del corpo presidenziali e leader politici tutti i giorni. In realtà, i resoconti giornalistici riportano solo 6 casi negli ultimi 23 anni, di cui 4 avvenuti in attacchi golpisti in Africa centrale, 1 nella recente crisi ucraina e il sesto in Colombia.La ragione di un numero così scarso di episodi criminali di questo tipo nella lotta politica internazionale è che eliminare una guardia del corpo presidenziale o qualcuno con un percorso militante come Eliécer Otaiza in Venezuela, così vicino al governo, rappresenta come un atto diretto contro il centro stesso del potere. Il presidente venezuelano e il suo ministro dell'Interno definirono il caso come un "crimine politico pianificato da Miami", dove una parte dell'opposizione conservatrice venezuelana tesse le sue cospirazioni, assolda mercenari e addestra militarmente giovani studenti conservatori. In realtà, è ben più che Miami. Si sono create nicchie di cospirazione e addestramento a Bogotà, Táchira e nelle grandi tenute dei ricchi allevatori venezuelani. Alcuni gruppi di paramilitari, disoccupati in Colombia, sono diventati molto attivi tra l'opposizione venezuelana. Il punto di partenza per qualunque approccio su ciò che accade in Venezuela è il grado di incompatibilità assoluta tra il Venezuela come stato-nazione, come governo, sistema politico e movimento sociale, e il dominio emisferico statunitense. In questo contesto si sviluppa il complicato dilemma interno di saper finire quello che si è cominciato.

Questo distacco del dominio yankee spiega che la società venezuelana è soggetta dal 2002 alla più crudele delle pressioni esterne e interne volte a minare la sua governabilità, frenare lo sviluppo e sconfiggere le sue forze sociali. In 12 anni ci sono stati un colpo di stato nell'aprile 2002, benché sconfitto nelle successive 47 ore, tre complotti golpisti nel 2003, 2004 e 2005, oltre a un attacco industriale e petrolifero. Si contano anche per lo meno 4 tentativi di assassinare Chávez e circa 250 aggressioni a funzionari governativi. Il totale dei chavisti assassinati tra il 2002 e il 2014 è spaventoso: 357. Esso include i 7 medici cubani assassinati o feriti e i 256 contadini crivellati dal 2003. Questa macabra statistica avvicina il Venezuela a scenari di violenza politica acuta come quella della Colombia, dove la borghesia impone la sua pace sociale a suon di pallottole, persecuzioni e deportazioni. Per essere precisi, i suoi promotori mirano a trasformare il paese in qualcosa di simile a quello che avviene da un anno a questa parte in Siria o da tre mesi in Ucraina.

Il Venezuela corre il rischio di una guerra civile provocata, diretta e finanziata dai gruppi di potere degli Stati uniti, da parte dei governi della destra latinoamericana, utilizzando a tal scopo come la cavalleria alcuni settori dell'opposizione venezuelana, cioè l'avanguardia necessaria che agisce in nome di tutti i capitalisti.Ci sono altri morti con altri responsabili che tuttavia non andrebbero imputati al governo, né al sistema politico. Si tratta di 5 operai caduti in uno sciopero per mano della polizia agli ordini di un governatore bolivariano corrotto, in una città dell'interno, e 3 morti nello Stato di Aragua, nel centro-nord del paese, nel corso di una disputa tra sindacalisti classisti e un gruppo della burocrazia corporativa filogovernativa. Ciò che definisce il processo bolivariano è l'attacco permanente di Washington e della borghesia latinoamericana per abbatterlo. In questo scenario di tensioni costanti, il governo e la direzione politica del
chavismo si dibattono tra politiche duplici che in molti casi hanno avuto successo, ma in altri hanno trasformato i crimini in casi polizieschi, anche isolati, dove il progetto rivoluzionario contenuto nel Programma della Patria e il Golpe de Timón è subordinato all'incidente. In questo trattamento poliziesco dell'incidente si dissolve la forza sociale che deve sostenere la difesa delle conquiste del processo rivoluzionario e farlo progredire.

La mappa della morte 


Ma queste due vittime dei sicari politici dell'opposizione non sono apparse come fatti polizieschi e ancor meno come idee balorde di rivalsa conservatrice. Otaiza e l'appartenente alla sicurezza di Maduro sono solo due sintomi del dramma nazionale in corso. Tra febbraio e maggio, una parte dell'opposizione è stata protagonista di una "rivolta dei ricchi", come venne titolata con arguzie giornalistica dal corrispondente di The Guardian, sorpreso dall'abbigliamento e dalle auto lussuose delle persone che vedeva sulle barricate. Da quella rivolta risultarono 48 morti, dei quali solo 15 oppositori. La cosa sorprendente in termini umani di questa statistica, si somma ad una sorpresa più sconcertante. Le due cifre di questi morti si invertono nelle teste dell gente disinformata - la maggioranza - che si orienta con le informazioni pubblicate accuratamente nelle catene televisive e quotidiani dominanti e da giornalisti senza scrupoli come Jorge Lanata o deputati legati agli oppositori venezuelani, come Federico Pinedo

Tra il 12 febbraio e il 28 di marzo, agenzie come la colombiana NTN24, la CNN e quotidiani come El País e ABC in Spagna, Miami Herald, El Nacional di Caracas e Clarín di Buenos Aires, rispetto ai fatti venezuelani hanno pubblicato 21 fotografie ad alto contenuto di violenza, però avvenuta in altri paesi, copiandole dalle "reti sociali". Uno delle principali vettori di questa falsa informazione è sono i media di J. J. Rendón, ex consigliere di Manuel Santos e Uribe Vélez, uno dei più importanti cospiratori venezuelani all'estero (vive a Miami dal 2006). Con quelle immagini di morte e di violenza hanno costruito relazioni giornalistiche false. In ognuna di esse apparivano giovani o donne colpite da agenti di sicurezza. Quelle fotografie o riprese video furono usate dagli editori per titolare articoli che affermavano che "il governo spara e tortura la società civile e gli studenti oppositori", come hanno detto la CNN e il Miami Herald e ripreso gli altri media. Con quella falsificazione su larga scala hanno ottenuto due cose: convincere mezzo pianeta che in Venezuela esiste una dittatura assassina e, contemporaneamente, invertire i fatti reali. Molta gente si convinse che i morti erano tutti oppositori. "Giovani studenti indifesi che escono disarmati nelle strade per reclamare i loro diritti democratici contro un governo dispotico che spara a distanza ravvicinata", raccontava il conduttore Jorge Lanata in uno dei suoi programmi, forse una proiezione psichica per soddisfare un desiderio profondo.

Questa truffa informativa deliberata si trasforma in grossolanità giornalistica appena si approfondisca la realtà. Risulta che dei 15 caduti dell'opposizione, solo 5 sono di responsabilità governativa e appena 3 per mano dei militanti chavisti. In termini di responsabilità politica, tutti i morti, compresi quelli degli oppositori sono stati causati dalla "rivolta dei ricchi", cominciata a febbraio senza una fine prevista. Mercoledì 7 maggio, due mesi e mezzo dopo, continuavano ancora le azioni violente dei gruppi oppositori. Ci sono segnali di un'altra rivolta per giugno, protetta dai Mondiali di calcio.A differenza dei dirigenti dell'opposizione venezuelana e dei loro soci giornalisti e parlamentari all'estero, il governo si è assunto la responsabilità delle azioni dei suoi membri. Ha destituito il capo della polizia che disubbidì all'ordine presidenziale di non sparare il 12 febbraio e ha portato in giudizio una decina agenti della guardia nazionale, in alcuni casi per atti di violenza personale. Le altre sette persone dell'opposizione sono cadute per effetto dalle proprie azioni, sulle barricate o in incidenti individuali nel corso delle azioni violente. La procura li ha definiti casi di "morte indiretta", perché non ci fu intenzionalità. Può essere, ma in termini politici, esiste una causa certa: le barricate organizzate da loro stessi come parte di una rivolta "dei ricchi" In queste azioni contro il governo, tre militanti dell'opposizione si sono uccisi con le loro mani: a uno scoppiò un mortaio che si preparava ad usare contro la Guardia nazionale, un altro rimase fulminato abbattendo un'insegna pubblicitaria per fare una barricata e il terzo cadde da una terrazza, in un quartiere ricco di Caracas, dopo aver sparato contro i corpi di sicurezza dello stato.

Questo emerge da queste cinque fonti consultate sul web: Red de Apoyo por la Justicia y la Paz, Provea, Amnistía Internacional, Red de colectivos La Araña Feminista, Centro para la Paz y los Derechos Humanos de la UCV e il quotidiano digitale Aporrea che hanno registrato quotidianamente le morti. Il resto dei morti per atti violenti si divide in due tipologie: 15 senza attività politica e che potrebbero essere registrati né chavisti, né antichavisti. Gli altri 18 morti erano chavisti o bolivariani di tre tipi: 10 sono registrati come membri dei corpi di sicurezza (Custodia Presidencial, GNB, PNB e SEBIN), 1 era un funzionario della Procura generale, i rimanenti avevano militato col PSUV o in raggruppamenti sociali bolivariani. A questi ultimi due gruppi appartenevano Eliécer Otaiza e la guardia del corpo presidenziale. (…) I componenti attivi del soggetto fascista che ha animato gli scontri sono gli studenti delle università private e privatizzate. Anche alcuni distaccamenti della classe povera delle baraccopoli dei quartieri marginali di Caracas e di due o tre grandi città. I suoi operatori sul terreno sono gruppi di paramilitari associati e finanziati dalla Fondazione Internazionalismo per la Democrazia, diretta dall'ex presidente colombiano Álvaro Uribe Vélez. Contano anche su appoggio tattico di gruppi neonazisti provenienti dall'Europa come il noto Otpor, che in comunione con altre Ong come la NED, Canvas, AEI e Freedom House, orientano, organizzano e armano con tattiche e metodi diversi, oltre 2000 studenti addestrati militarmente a Miami e in Colombia alle tecniche di guerra (civile) "di bassa intensità."

La relazione ufficiale presentata lo scorso 2 maggio dal ministro dell'Interno del Venezuela, Rodríguez Torres, è dettagliata, basata su dati, fonti, testimonianze e documentazione ottenuta dal governo bolivariano (Vedere "30 claves del plan insurreccional contra Venezuela" , poderenlared.com del 5 maggio 2014). Il carattere di questo soggetto sociale nuovo obbliga a ripensare tutto quello che ha affrontato fino ad ora la "rivoluzione bolivariana" e il suo governo. Se questo fascismo non sarà distrutto, la "rivoluzione bolivariana" si incamminerà inesorabilmente verso una sconfitta come quella guatemalteca del 1954, argentina del1955, brasiliana del 1964, cilena del 1973, peruviana del 1975, boliviana del 1977 o salvadoregna del 1982. L'altra strada è ugualmente pericolosa benché sia diversa, perché si basi sull'illusione che una "opposizione democratica" affronterà un'altra che non lo è. Chi uccide e chi muore in Venezuela non è una cronaca giornalistica o una statistica sociale. Affinché non si trasformi in un record perverso, grottesco, del disastro umano in cammino, deve essere fermato "prima che sia tardi", come ha sottolineato al presidente Maduro il capitano della Guardia nazionale bolivariana, José Guillén Araque, il 12 febbraio, "morto con un colpo in fronte il 17 marzo mentre tentava di ostacolare una barricata" (L. Bracci, Alba Ciudad, 15/4/14). La frase la fece conoscere proprio lo stesso presidente nella camera ardente il 18 di quel mese, tuttavia il suo contenuto trascende la necessità di un programma sociale, politico e militare: combattere per tempo il fascismo venezuelano.


Quien mata y quien muere en Venezuela


Por: Modesto Emilio Guerrero


Los asesinatos de un custodio del presidente Maduro y de un destacado dirigente chavista evidencian que la campaña de la derecha, orquestada desde Miami, Colombia y la propia Venezuela, se ha inclinado por la violencia sin freno. Durante los primeros días de mayo fueron asesinados en Venezuela, con pocos días de diferencia, un custodio del presidente Nicolás Maduro y un personaje central del chavismo llamado Eliécer Otaiza. Ambos hechos pusieron las alarmas en rojo, causando remezones solo comparables a los vividos en el país por la violencia desatada entre febrero y marzo de este año. Este último hombre, Otaiza, había participado en la fundación del movimiento chavista, o bolivariano, pero además tenía, cuando lo mataron, un alto cargo de representación en el poder municipal de la capital. Junto con su hermano mellizo, acompañaron a Hugo Chávez desde que salió de la cárcel en julio de 1994, como custodios en la romería que hizo por centenares de ciudades, pueblos, campos y barrios venezolanos, en los que el líder bolivariano difundió el mensaje del nuevo movimiento nacionalista brotado dos años antes, el 4 de febrero de 1992.
No se matan custodios presidenciales y líderes políticos todo los días en este mundo. De hecho, los registros periodísticos solo reseñan seis casos en los últimos 23 años, cuatro de ellos en asaltos golpistas en África Central, uno en la reciente crisis de Ucrania y un sexto en Colombia.La razón para un registro tan escaso de episodios criminales de ese rango en la lucha política internacional es que eliminar a un custodio presidencial o alguien con la trayectoria militante de Eliécer Otaiza en Venezuela, tan cercano al gobierno como él, es un acto directo contra el centro mismo del poder. El presidente venezolano y su ministro del Interior definieron el caso como un “crimen político planificado desde Miami”, donde una parte de la oposición derechista venezolana fragua sus conspiraciones, contrata mercenarios y entrena militarmente a jóvenes estudiantes derechistas. En realidad, es más que Miami. Se han verificado nichos de conspiración y entrenamiento en Bogotá, Táchira y haciendas grandes de ricos ganaderos venezolanos. Algunos grupos de paramilitares, desocupados en Colombia, se han vuelto muy activos entre la oposición venezolana. El punto de partida para cualquier aproximación a lo que pasa en Venezuela es el grado de incompatibilidad absoluta entre Venezuela como Estado-nación, como gobierno y sistema político y como movimiento social, frente al dominio hemisférico estadounidense. En ese contexto se desarrolla el complicado dilema interno de saber cómo terminar lo comenzado.

Ese distanciamiento del dominio yanqui explica que la sociedad venezolana esté sometida desde el año 2002 a la más cruel de las presiones externas e internas para descalabrar su gobernabilidad, frenar su desarrollo y derrotar sus fuerzas sociales. En 12 años ha sufrido un golpe de Estado en abril de 2002, aunque derrotado en las siguientes 47 horas, luego tres intentonas golpistas en 2003, 2004 y 2005, además de un paro industrial y petrolero. También se cuentan por lo menos cuatro intentos de magnicidio a Chávez y alrededor de 250 agresiones a funcionarios gubernamentales. La suma de los chavistas asesinados entre 2002 y 2014 aterroriza: 357. Incluye los siete médicos cubanos asesinados o heridos y los 256 campesinos acribillados desde 2003. Esa estadística macabra acerca a Venezuela a escenarios de violencia política aguda como el de Colombia, donde la burguesía impuso su paz social a balas, persecución y desplazamientos. Para ser precisos, sus promotores tienen el proyecto de convertir al país en algo similar a lo que estamos presenciando desde un año atrás en Siria, o hace tres meses en Ucrania. Venezuela se enfrenta al riesgo de una guerra civil provocada, dirigida y financiada por grupos de poder de EE.UU., por gobiernos de la derecha latinoamericana, usando para ello a sectores de la oposición venezolana que se han desprendido para actuar como la caballería, la vanguardia necesaria que actúa en nombre de todos los capitalistas. Hay otros muertos con otros responsables, que sin embargo, no definen al gobierno ni al sistema político. Se trata de cinco obreros caídos en medio de una huelga por acción policial bajo órdenes de un gobernador bolivariano corrupto en una ciudad del interior, y tres más que cayeron en el Estado de Aragua, ubicado en el centro-norte del país, en medio de una disputa entre sindicalistas clasistas y un grupo de la burocracia gremial oficialista.

Lo que define al proceso bolivariano es el ataque permanente de Washington y las burguesías latinoamericanas para derrocarlo. En ese escenario de tensiones constantes, el gobierno y la dirección política del chavismo se debate entre políticas duales que en muchos casos han sido acertadas, pero en otras ha convertido los crímenes en casos policiales, incluso aislados, donde el proyecto revolucionario contenido en el Programa de la Patria y el Golpe de Timón se subordina al incidente. En ese tratamiento policial del incidente se disuelve la fuerza social que debe sostener la defensa de las conquistas del proceso revolucionario y hacerlo avanzar.

El mapa de la muerte. Pero estas dos víctimas resonantes del sicariato político opositor en el país no aparecieron en el escenario como si fueran sucesos policiales, y menos como caprichos de la revancha derechista. Otaiza y el miembro de la seguridad de Maduro son apenas dos síntomas escandalosos del drama nacional en curso.

Entre febrero y mayo, una parte de la oposición protagonizó una “revuelta de ricos”, como tituló con buen tino periodístico el corresponsal de The Guardian, sorprendido por el atuendo personal y los autos lujosos de las personas que vio en las marchas y en las barricadas. De esa revuelta resultaron 48 muertos, de los cuales solo 15 son opositores.

A lo sorprendente en términos humanos de esta estadística, se suma una sorpresa más desconcertante. Estas dos cifras de muertos se invierten en las cabezas de gente desinformada –la mayoría–, que se orienta por las informaciones editadas cuidadosamente en las cadenas televisivas y diarios dominantes y por periodistas sin escrúpulo como Jorge Lanata, o diputados asociados a los opositores venezolanos, como Federico Pinedo.

Entre el día 12 de febrero y el día 28 de marzo, cadenas como NTN24, de Colombia, CNN, y diarios como El País y ABC, de España, Miami Herald, El Nacional de Caracas y Clarín, de Buenos Aires, ubicaron dentro del acontecimiento venezolano 21 imágenes fotográficas de alta violencia, pero ocurridas en otros países. Las copiaban de las “redes sociales” desde fuentes armadas en territorio venezolano y colombiano. Una de las principales agencias de esa información falsa fue la empresa de medios de J. J. Rendón, ex asesor de Juan Manuel Santos y Uribe Vélez, uno de los más destacados conspiradores venezolanos en el exterior (vive en Miami desde 2006). Con esas imágenes de muerte y violencia construyeron informes periodísticos falsos. En cada una de ellas aparecían jóvenes o mujeres golpeadas por agentes de seguridad. Esas fotografías o filmaciones de video fueron usadas por los editores para titular informes en los que afirmaban que “el gobierno dispara y tortura a la sociedad civil y estudiantes opositores”, como dijeron la CNN y el Miami Herald y replicaron los otros medios.

Con esa falsificación a gran escala lograron dos cosas. Convencer a medio planeta de que en Venezuela existe una dictadura asesina y al mismo tiempo, invertir los hechos de la realidad: mucha gente quedó convencida de que los muertos son todos opositores. “Jóvenes estudiantes indefensos que salen desarmados a las calles para reclamar por sus derechos democráticos contra un gobierno despótico que les dispara a mansalva”, así relató el conductor Jorge Lanata en uno de sus programas, quizás una proyección psíquica para satisfacer un deseo profundo. Esta estafa informativa deliberada se convierte en grosería periodística cuando hurgamos en la realidad. Resulta que de los 15 caídos de la oposición solo 5 son de responsabilidad gubernamental y apenas 3 por acción de la militancia chavista. En términos de responsabilidad política, todos los muertos, incluidos los de gente opositora, fueron causados por la “revuelta de ricos” comenzada en febrero sin fin previsto. El día miércoles 7 de mayo, dos meses y medio después, aún continuaban los actos violentos de los grupos opositores. Hay señales de otra revuelta para junio, amparados en el Mundial de Fútbol. A diferencia de los dirigentes de la oposición venezolana y sus socios periodísticos y parlamentarios en el exterior, el gobierno se hizo responsable por las acciones de sus miembros. Destituyó al jefe policial que desobedeció la orden presidencial de no disparar el 12 de febrero y mantiene a una decena de guardias nacionales procesados judicialmente, en algunos casos por ejercer actos de violencia personal.

Las otras siete personas de la oposición, cayeron por efecto de sus propias acciones, dentro de las barricadas o en accidentes individuales en acciones violentas. La Fiscalía llamó a este tipo de casos “muerte indirecta”, porque no hubo intencionalidad. Puede ser, pero en términos políticos, sí existe una causa identificada: las barricadas organizadas por ellos mismos como parte de una revuelta “de ricos”.

De esas acciones contra el gobierno resultaron muertos tres militantes opositores por sus propias manos: a uno le explotó un mortero que preparaba contra la Guardia Nacional, otro se electrocutó derribando una valla publicitaria para hacer una barricada y el tercero se cayó de una terraza en un barrio rico de Caracas, luego de disparar contra los cuerpos de seguridad del Estado.

Así se desprende de estas cinco fuentes consultables en la web: Red de Apoyo por la Justicia y la Paz, Provea, Amnistía Internacional, Red de colectivos La Araña Feminista, Centro para la Paz y los Derechos Humanos de la UCV, y el diario web Aporrea, que llevó el registro diario de las víctimas mortales.

El resto de los fallecidos por actos violentos se divide en dos tipos de personas: 15 vecinos y vecinas sin actividad política, que podrían ser contabilizadas como ni chavistas ni antichavistas. Los otros 18 caídos mortales eran chavistas o bolivarianos de tres tipos: 10 están registrados como miembros de los cuerpos de seguridad pública del Estado (Custodia Presidencial, GNB, PNB y el SEBIN), 1 era fiscal del Ministerio Público, el resto tenía actividad militante conocida con el PSUV o agrupaciones sociales bolivarianas. A estos dos últimos grupos pertenecieron Eliécer Otaiza y el guardaespaldas presidencial.

Al fascismo no se le discute. La periodista radial y militante bolivariana Hindu Anderi se preguntaba en un artículo de opinión reciente: “¿Después de Otaiza quién sigue?” (Aporrea, 5 de mayo 2014). El aparente tremendismo de la expresión puede confundir a quienes creen, a veces con ingenuidad, que la política, en su dimensión más histórica, se reduce a una cuestión de poder, de relaciones de fuerza o, peor, de hechos consumados a los que hay que adaptarse.

La respuesta a la inquietante cuestión planteada por Anderi nos devela las complejas dimensiones del acontecimiento venezolano.

La dimensión mediática nos muestra que mientras no se modifique la cultura dominante, ellos tendrán ganada esa batalla, porque el mensaje elaborado en los medios encontrará en “la gente” el sentido común que necesita para convertir en verdad hasta la mentira más grosera. Por ejemplo, que Venezuela es una dictadura, que no hay libertad de prensa y que los muertos son inocentes estudiantes opositores.

En cambio, la dimensión político-militar no está en las manos de ellos. La defensa del proceso bolivariano dependerá de que tenga, como comprensión rectora, que “al fascismo no se le discute, se le destruye”, como gritaba Buenaventura Durruti durante la Guerra Civil Española, contra los republicanos, socialistas y comunistas moderados de la República.

Matar altos funcionarios, custodios presidenciales o agentes de la Guardia Nacional Bolivariana es un acto límite en cualquier enfrentamiento político, en este caso entre chavismo y antichavismo. Allí nace la justificable duda de la periodista venezolana Hindu.



En términos más amplios, también es un acto límite en la conducta humana, matar ciudadanos desarmados por diferencias de opinión o llevar una remera roja del chavismo o un tatuaje del rostro de Chávez en el brazo. Los opositores venezolanos han atravesado esos límites humanos. Atravesaron alambres en las calles para degollar, incendiaron 11 planteles universitarios, estaciones de subte, rociaron con gasolina a guardias nacionales y les tiraron yesqueros encendidos, envenenaron un depósito de agua potable en Mérida. Llegaron al extremo de comenzar a quemar un preescolar estatal con 75 niños y sus maestras adentro.

Estas fronteras humanas en la lucha política solo son traspasadas cuando una de las partes se convenció de hacer la guerra a la otra. En ese punto nace lo que desde 1921 se conoce como fascismo, que en la definición del primero que la estudió en el terreno europeo “es la decisión de la burguesía de actuar con métodos de guerra civil contra las fuerzas del proletariado y sus partidos” (La lucha contra el fascismo en Alemania, L. Trotsky, Edic. Pluma, pp. 56). En la Venezuela bolivariana ha brotado el sujeto fascista, un bicho casi desconocido en su historia política contemporánea. Al revés de Argentina, Brasil, El Salvador o Chile, brotó en febrero de este año, aunque las puntas de sus pezuñas fueron vistas varias veces desde abril de 2002.



No es necesaria la existencia de un “proletariado” o de fuertes partidos marxistas o anarquistas, como los de aquellas décadas iniciales. El chavismo y su poderoso movimiento social les huelen a lo mismo, aunque no lo sean, porque enfrentan a enemigos similares. El fascismo contemporáneo mutó y se adaptó al tipo de enemigos “nacionales” y “plebeyos”, que debe enfrentar en países como los nuestros. Para comprender su aparición este año y no antes, debe recordarse que la actual generación de jóvenes pertenecientes a familias ricas y medias altas fue amamantada en los últimos 14 años por una sola mamadera: odio al chavismo, como si fuera el mismísimo Lucifer rojo. En esta década y media de cinco gobiernos continuos del líder bolivariano y su continuador, Nicolás Maduro, la derecha venezolana ha sufrido la mayor cantidad de derrotas que derecha alguna haya registrado en este planeta. 17 sobre 18 procesos de votación de escala nacional. Perdió el control del dispositivo de la renta petrolera y el gobierno que la
mantenía encarnada oficialmente en el modo de vida norteamericano, sus valores, finanzas, empresas y cultura. La cultura dominante en Venezuela no depende solo la de la clase dominante. Está en fuerte y permanente disputa con una cultura de izquierda inspirada en el ideario socialista del siglo XXI. Sus calles, simbología gubernamental, discursos, medios oficiales y comunitarios y su movimiento social bolivariano son muestra de ello.

Esta breve suma es suficiente para producir horror entre los privilegiados, no solo de Venezuela.

Los componentes activos de este sujeto fascista son los estudiantes de las universidades privadas y privatizadas. También algunos desprendimientos lúmpenes de la clase pobre de los barrios marginales de Caracas y de dos o tres ciudades grandes. Sus operadores en el terreno son grupos de paramilitares asociados y financiados por la Fundación Internacionalismo para la Democracia, dirigida por el expresidente colombiano Álvaro Uribe Vélez. También cuentan con apoyo táctico de grupos neonazis llegados de Europa como la conocida Otpor, la que junto a otras ONG como la NED, Canvas, AEI y Freedom House, orientan, organizan y arman con tácticas y métodos diversos, a más de 2 mil estudiantes entrenados militarmente en Miami y Colombia en técnicas de guerra (civil) “de baja intensidad”. El informe oficial presentado el pasado 2 de mayo por el ministro del Interior de Venezuela, Rodríguez Torres, es, además de pormenorizado, suficientemente basado en datos, fuentes, testimonios y documentación obtenida por el gobierno bolivariano (Ver: “30 claves del plan insurreccional contra Venezuela”, poderenlared.com del 5 de mayo 2014). El carácter de este sujeto social nuevo obliga a repensar todo lo que enfrentaron la “revolución bolivariana” y su gobierno hasta ahora. Especialmente la estrategia de defensa, por aquello que aconsejaba Durruti, entre otros que sufrieron el tiempo del fascismo europeo. Si el fascismo no es destruido, la “revolución bolivariana” se encaminará inexorablemente hacia una derrota como la guatemalteca de 1954, la argentina de 1955, la brasileña de 1964, la chilena de 1973, la peruana de 1975, la boliviana de 1977, o la salvadoreña de 1982. El otro camino es igual de peligroso aunque sea distinto, porque se basa en la ilusión de que una “oposición democrática” enfrentará a otra que no lo es. Quién mata y quién muere en Venezuela no es una crónica periodística o una estadística social. Para que no se convierta en un registro pervertido, grotesco, del desastre humano en marcha, debe ser parado “antes de que sea tarde”, como le advirtió al presidente Maduro el capitán de la Guardia Nacional Bolivariana, José Guillén Araque, el 12 de febrero, “muerto de un balazo en la frente el 17 de marzo mientras trataba de impedir una barricada” (L. Bracci, Alba Ciudad, 15/4/14). La frase la dio a conocer el propio presidente en el velatorio el 18 de ese mes, sin embargo su contenido lo trasciende hasta la necesidad de un programa social, político y militar: impedir que el fascismo venezolano se convierta en temprano.





Modesto Emilio Guerriero | aporrea.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare




¡se tiene que resistir y combatir el fascismo con cada medio necesario!!!!

si deve resistere e combattere il fascismo con ogni mezzo necessario !!!!




Blog senza scopi di lucro con foto da internet inserite da amministrazione blog

lunedì 19 maggio 2014

Documento redatto dal Partito del Lavoro (EMEP) Turchia, sul massacro nella miniera di Soma.


I morti della strage di Soma in Turchia continuano ad  aumentare, bisogna che tutti apriamo gli occhi perchè il capitalismo selvaggio  è un mostro senza controllo, pilotato da multinazionali spietate che per sopravvivere diariamente si macchiano di  crimini orrendi,.. in tutto il sud Europa vogliono ripristinare  condizioni di lavoro senza diritti, senza sicurezza, con salari da fame.....Nostro dovere è fermarli con ogni mezzo necessario...
                                                    "Sandino"

 
Il motivo del massacro di Soma (Turchia) è l’irrefrenabile desiderio di sfruttamento da parte dei padroni

Moltissimi minatori hanno perso la vita a Soma, in Turchia, in una miniera di proprietà della Soma Coal Inc. Il numero ufficiale dei morti questa mattina era di 298, ma ci si aspetta che questo numero aumenti e che si raggiunga un più elevato numero di vittime.
Porgiamo le nostre condoglianze alla classe operaia e alle famiglie delle vittime e auguriamo una pronta guarigione ai feriti.
Non possiamo definire quello che è successo a Soma un incidente, come fanno i rappresentanti del governo. Al contrario, invece di una fatalità questa è un autentica mattanza!
Secondo le statistiche durante i 12 anni del governo di AKP, più di 14.0000 lavoratori hanno perso a loro vita sul lavoro. Il massacro di Soma è l’apice di questi omicidi.
Tutti questi assassinii sono il risultato di una politica anti-operaia. Le politiche neoliberiste del governo di AKP, così come di quelli che lo hanno preceduto; la privatizzazione, i subappalti, l’aumento dei carichi di lavoro con la riduzione del numero dei lavoratori, l’aumento dello sfruttamento in nome di una maggiore “performance”: questi sono le cause di tali assassinii.I deputati dei partiti politici CHP, MHP e BDP hanno presentato al parlamento una mozione peristituire un “ commissione di inchiesta” a causa dei frequenti incidenti mortali nella Soma Coal Inc.
Ma essa è stata respinta dai deputati dell’AKP solo 20 giorni fa.
Levent Tuzen, deputato dell’HDP di Istanbul, ha posto la questione nel parlamento ma, essa è stata praticamente scartata dal ministero responsabile il quale ha affermato che i posti di lavoro sono regolarmente ispezionati.
I manager della miniera di Soma, dove si è verificato il massacro, hanno incensato le virtù della privatizzazione che permette loro di ridurre il prezzo del carbone del 60%.
Ecco come si riduce il costo del carbone: riducendo il numero dei lavoratori, il che aumenta i carichi di lavoro; eliminando i lavoratori più esperti per sostituirli con i lavoratori a più basso costo,con meno esperienza; incorporando lavoratori inesperti attraverso i subappalti; impedendo la
sindacalizzazione e privando i lavoratori dei loro diritti basilari; riducendo le spese in materia di sicurezza, in nome della riduzione dei costi; non osservando le norme a garanzie di sicurezza e della salute dei lavoratori; stabilendo strette relazioni con il partito di governo per evitare le ispezioni, etc; queste sono le pratiche a cui i manager hanno dato impulso in nome della riduzione dei costi e che hanno portato a questo massacro.
Gli omicidi sul lavoro e quest’ultimo massacro ovviamente non sono frutto del destino.
Gli assassinii sul lavoro finiranno solo quando finirà la brama dei padroni per il profitto e la tolleranza riguardo lo sfruttamento. Il nostro partito lavora per farla finita con il sistema di sfruttamento.
Noi siamo addolorati per gli amici operai che abbiamo perso. La cosa migliore che noi possiamo fare per loro ora è di unirci contro lo sfruttamento e di scatenare la lotta contro di esso. Esigiamo che il governo la smetta contro le politiche antioperaie.
Il ministro dell’Energia e delle Risorse Naturali e il ministro del Lavoro e delle Pensioni devono essere i primi a dimettersi immediatamente. Tutti i responsabili devono essere condannati alle pene più severe.
La legislazione, attualmente inadeguata a garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori, deve essere rivista. I luoghi di lavoro devono essere ispezionati da esperti in materia di sicurezza sul lavoro. Devono essere introdotte sanzioni gravi per i padroni delle imprese che non rispettano le necessarie misure di sicurezza per la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Facciamo appello ai lavoratori e ai sindacati per protestare contro il massacro di Soma con scioperi e manifestazioni. Non dobbiamo permettere che un simile massacro sia messo a tacere con ipocriti messaggi di condoglianze. Come popolo, questo è il momento giusto per invertire la rotta e lanciarci nella lotta per evitare che questi massacri succedano di nuovo.
17.05.2014

Partito del Lavoro (EMEP), Turchia


Immagini da internet inserite da amministratore blog

giovedì 15 maggio 2014

La necessaria e giusta indipendenza del Sahara Occidentale /La necesaria y justa independencia del Sahara Occidental


 Le cause giuste sono invincibili e il destino degli oppressori dei popoli è la sconfitta

Ernesto Gómez Abascal

12/05/2014

Questo mese si compiono i 41 anni dall'inizio della lotta del Fronte Polisario contro l'occupazione illegale del suo territorio da parte della monarchia marocchina.

Malgrado la lotta del popolo saharawi inizi molto tempo prima, fu nel maggio del 1973 che si costituì il Fronte Polisario e iniziò la lotta organizzata per ottenere l'indipendenza nazionale.

Il colonialismo spagnolo, dopo essere stato sconfitto a Cuba nel 1898, aveva occupato quel territorio - conosciuto come Saguia el-Hamra [Canale rosso] e Río de Oro - quasi completamente desertico del nordest africano, con una popolazione scarsa e fondamentalmente nomade, ma molto ricco di fosfati e con appetibili banchi pescosi di fronte alle sue coste, entro le sue acque territoriali.

La Spagna, secondo il giudizio della Commissione Onu per la decolonizzazione, doveva avviare, all'inizio degli anni settanta, il processo di autodeterminazione con la popolazione del territorio, per mettere fine alla sua condizione coloniale, ma interessi politici reazionari fecero si che lo consegnasse, per la sua maggior parte, all'ambiziosa ed espansionista monarchia marocchina e una porzione meridionale al governo della Mauritania, il quale, dopo poco tempo avrebbe rinunciato a causa della sua incapacità di resistere alla guerra che gli facevano i Saharawi. Il Marocco rimase con tutto il territorio e, con la promozione di una campagna demagogica che chiamò la "marcia verde", lanciò decine di migliaia dei suoi cittadini a colonizzarlo.

Il processo di autodeterminazione è continuato fino ai nostri giorni, in attesa dell'esecuzione delle decisioni dell'Onu e mentre i successivi governi della Spagna, legati agli interessi economici marocchini, e quelli degli altri paesi della Nato, specialmente la Francia, lungi dall'agire per portare a termine questo processo hanno messo in campo ogni tipo di ostacolo. Una buona parte del popolo saharawi viene mantenuto nella condizione di rifugiato in accampamenti sul territorio algerino, vivendo in condizioni subumane o in una striscia di territorio liberato dietro un immenso muro militarizzato costruito dagli occupanti e colmo di mine e di ogni tipo di esplosivi.

La monarchia marocchina, come i sionisti di "Israele", non occupa solo illegalmente il territorio altrui, ma ha tentato di espandersi e prendere porzioni di territorio algerino e mauritano. Quasi riuscita ad ottenere l'indipendenza dalla Francia dopo anni di sanguinose lotte, l'Algeria dovette affrontare nel 1962 i tentativi marocchini di impadronirsi di una parte del suo territorio. In quell'occasione, un reggimento di carri armati cubani fu inviato in aiuto dei fratelli algerini per respingere l'aggressione illegale.

Prima dell'occupazione marocchina del Sahara Occidentale, una delegazione dell'Onu percorse il territorio ed ebbe colloqui coi suoi abitanti, come con le autorità dei paesi confinanti, potendo constatare, come affermò nella sua relazione, che il popolo saharawi si pronunciava chiaramente per la completa indipendenza e non per l'annessione a qualcuno dei suoi vicini.

Tuttavia, il Marocco lo invase illegalmente e obbligò, col ferro e il fuoco, una buona parte della popolazione a rifugiarsi nel deserto e nella regione confinante dell'Algeria, senza offrire loro altra possibilità che dare inizio alla lotta per la liberazione nazionale.

Visitai il Sahara ed ebbi un colloquio coi dirigenti del Fronte Polisario nel maggio del 1977, al momento di massima intensità della lotta che essi combattevano in condizioni molto sfavorevoli, dato l'ampio sostegno accordato alla monarchia marocchina da alcune potenze occidentali, in particolare dalla Francia. Potei confermare personalmente la volontà di questo popolo eroico e la sua ferma determinazione, che si è mantenuta fino ai nostri giorni, di ottenere l'indipendenza.

Come è accaduto con l'occupazione illegale della Palestina, anche in questo caso le potenze
occidentali praticano una doppia morale. Le autorità di Rabat compiono ogni tipo di violazione, reprimono e massacrano il patriottico popolo Saharawi, trattengono centinaia di imprigionati in condizioni disumane, torturano e fanno sparire i suoi cittadini. Ma non vengono portati davanti ai tribunali internazionali e nemmeno alle Commissioni per i Diritti umani. Né il Marocco appare nelle famose e ipocrite liste che pubblica il Dipartimento di Stato. Tutto il contrario, riceve dai suoi alleati e dai suoi padroni aiuti di ogni tipo, compresi gli armamenti moderni. Ovviamente, la "grande stampa occidentale" sorvola su quanto succede nel Sahara Occidentale.

In buona misura, è da quelle parti che cominciò, nel novembre 2010, la cosiddetta "primavera araba", quando le manifestazioni popolari iniziarono o furono promosse in altri paesi della regione. Nella grande tendopoli Gdeim Izik, alla periferia della città di El Ayun, migliaia di saharawi che chiedevano libertà e indipendenza, inclusi donne, anziani e bambini, furono attaccati selvaggiamente dai militari e dalle forze di sicurezza marocchine che incendiarono l'accampamento, con un computo di morti, feriti e dispersi al momento sconosciuto.

La repressione contro la volontà indipendentista del popolo Saharawi è permanente. La grande stampa tace e il governo di Spagna, responsabile davanti all'Onu del compimento del processo di autodeterminazione, si volta dall'altra parte. Gli ipocriti delle potenze occidentali e i loro media sono molto occupati a osservare e inventare quanto dicono stia avvenendo in Siria, Venezuela, Cuba o in altri paesi che non gli sono subordinati. Nel Sahara e in Palestina, "tutto va normalmente", grazie all'appoggio che essi offrono ai governanti lacchè che servono i loro interessi in quei paesi.

La coalizione reazionaria del Consiglio di cooperazione del Golfo ha parlato della possibilità di premiare la monarchia di Rabat ammettendola fra i suoi membri, nonostante sia a centinaia di chilometri della regione. Ebbene, potrebbero fare lo stesso con l'entità sionista. In realtà, tutti lavorano per gli stessi obiettivi e si sottomettono agli ordini dell'impero e della Nato.

E' tempo di alzarci al fianco del popolo fratello saharawi, perché le cause giuste sono invincibili e il destino degli oppressori dei popoli è la sconfitta.


Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare


La necesaria y justa independencia del Sahara Occidental

Las causas justas son invencibles y el destino de los opresores es la derrota

Alahednews.lb


Este mes se cumplen 41 años del inicio de la lucha del Frente Polisario, contra la ilegal ocupación de su territorio por la monarquía marroquí.

A pesar de que la lucha del pueblo saharaui proviene de mucho antes, fue en mayo de 1973 cuando se constituyó el Frente Polisario e inició de forma organizada los combates para obtener la independencia nacional.

El colonialismo español, después de ser derrotado en Cuba en 1898, había ocupado ese territorio -conocido como Sagüia el Hamra y Río de Oro-, casi totalmente desértico en el noreste africano, con una escasa población, fundamentalmente nómada, pero muy rico en fosfato y con un apetecible banco pesquero frente a sus costas, dentro de sus aguas territoriales.

España, según dictamen de la Comisión de Descolonización de la ONU, debió iniciar, a principio de los años setenta, el proceso de autodeterminación con la población del territorio, para poner fin a su condición colonial, pero intereses políticos reaccionarios determinaron que lo entregara, en su mayor parte, a la ambiciosa y expansionista monarquía marroquí, y una porción sureña al gobierno de Mauritania, el cual, poco tiempo después renunciaría a ella debido a su incapacidad de resistir la guerra que le hacían los saharauis. Marruecos se quedó con todo el territorio y promoviendo una demagógica campaña que llamó “la marcha verde”, lanzó decenas de miles de sus ciudadanos para colonizarlo.
El proceso de autodeterminación continuó, hasta nuestros días, pendiente de ejecutar por la ONU y los sucesivos gobiernos de España, comprometidos con intereses económicos marroquíes y los de otros países de la OTAN, especialmente Francia, lejos de actuar para que este se lleve a cabo, han puesto todo tipo de obstáculos al obligatorio procedimiento. Una buena parte del pueblo saharaui se mantiene refugiado en campamentos en territorios argelinos, viviendo en condiciones infrahumanas o en una franja de territorio liberado tras un inmenso muro militarizado y colmado de minas y todo tipo de explosivos construido por los ocupantes.

La monarquía, al igual que los sionistas de “Israel”, no sólo ocupan ilegalmente territorio ajeno, sino que han tratado de expandirse y tomar partes de territorios argelinos y mauritanos. Casi acabada de obtener la independencia de Francia, después de años de sangrienta lucha, Argelia debió enfrentar en 1962, los intentos marroquíes de apoderarse de una parte de su territorio. En aquella ocasión, un regimiento de tanques cubanos fue enviado para ayudar a los hermanos argelinos a repeler la ilegal agresión.

Antes de la ocupación marroquí del Sahara Occidental, una delegación de la ONU recorrió el territorio y se entrevistó con sus habitantes, así como con autoridades de países fronterizos, pudiendo constatar, tal como lo dictaminó en su informe, que el pueblo saharaui se pronunciaba claramente por la independencia total y no por su anexión a ninguno de sus vecinos.

Sin embargo, Marruecos lo invadió ilegalmente y obligó a sangre y fuego, a una buena parte de la población, a refugiarse en el desierto y en la región adyacente de Argelia, sin ofrecerle otra alternativa a estos que iniciar la lucha por la liberación nacional.

Visité el Sahara y me entrevisté con los dirigentes del Frente Polisario tan temprano como en mayo de 1977, cuando estaba en plena intensidad la lucha que ese pueblo libraba en condiciones muy desventajosas, dado el amplio apoyo que recibía la monarquía de algunas potencias occidentales, especialmente de Francia. Pude confirmar personalmente, la voluntad de este heroico pueblo y su decisión irrenunciable, que se mantiene hasta nuestros días, de obtener la independencia.


Tal como ha sucedido con la ilegal ocupación de Palestina, las potencias occidentales practican una doble moral en este caso. Las autoridades de Rabat realizan todo tipo de violaciones, reprimen y masacran al pueblo patriota saharaui, mantienen cientos de encarcelados en condiciones infrahumanas, torturan y desaparecen a sus ciudadanos. Pero no son llevados a tribunales internacionales ni a Comisiones de Derechos Humanos. Tampoco Marruecos aparece en las famosas e hipócritas listas que publica el Departamento de Estado. Todo lo contrario, reciben de sus aliados y de sus amos, ayuda de todo tipo, incluido moderno armamento. Por supuesto, la “gran prensa occidental” pasa por alto lo que sucede en el Sahara Occidental.

En buena medida, fue por allí por donde comenzó en noviembre de 2010, la denominada “primavera árabe” cuando las manifestaciones populares se iniciaron o las promovieron en otros países de la región. En un gran campamento de carpas, Gdeim Izik, en las afueras de la ciudad de El Aiun, miles de saharauis que demandaban la libertad e independencia, incluidos mujeres, ancianos y niños, fueron salvajemente atacados por militares y fuerzas de la seguridad marroquí, que prendió fuego al campamento, con un saldo desconocido hasta el momento, de muertos, heridos y desaparecidos.

La represión contra la voluntad independentista del pueblo saharaui es permanente. La gran prensa calla y el gobierno de España, responsable ante la ONU de que se culmine el proceso de autodeterminación, le da la espalda. Los hipócritas de las potencias occidentales y su gran prensa, están muy ocupados observando e inventando lo que ellos dicen sucede en Siria, Cuba, Venezuela u otros países que no se les subordinan. En el Sahara y en Palestina, “todo marcha normalmente”, gracias al apoyo que ellos brindan a los gobernantes lacayos que en esos países sirven a sus intereses.

La coalición reaccionaria del Consejo de Cooperación del Golfo, ha hablado de la posibilidad de premiar a la monarquía de Rabat con admitirla como uno de sus miembros, a pesar de estar a cientos de kilómetros de la región. Bien podrían hacer lo mismo con Ia entidad sionista. De hecho, todos trabajan por los mismos objetivos y se subordinan a las órdenes del imperio y de la OTAN.

Ya es hora de levantarnos junto al hermano pueblo saharaui, las causas justas son invencibles y el destino de los opresores de los pueblos es la derrota.

Rebelión ha publicado este artículo con el permiso del autor mediante una licencia de Creative Commons, respetando su libertad para publicarlo en otras fuentes.


Reunión con Mohamed Abdelaziz, Secretario General del Frente Polisario en los campamentos en 1977. El autor es el primero de izquierda a derecha

giovedì 8 maggio 2014

STATI UNITI : "La democrazia è morta"


Troppi americani amano vantarsi che gli Stati Uniti siano una democrazia. Questa idea viene accettata acriticamente e celebrata come prova di superiorità nel paese. Ogni attività ed evento pubblico è un'opportunità per ripetere e indulgere in questa falsa narrazione.

Le occasioni più disparate come le elezioni, le vacanze, la pubblicità, l'inizio dell'anno scolastico, gli eventi religiosi, sono tutti utilizzati per propagandare e creare la falsa credenza circa il grado di potere del cittadino medio di fronte al governo.

Naturalmente ogni prova dimostra che questa divulgata è, ed è sempre stata, una menzogna. I dizionari definiscono la democrazia come il governo che rappresenta i cittadini per mezzo di rappresentanti eletti, o come la regola della maggioranza, o come una società che offre uguali diritti a tutti. La storia di questo paese ha vissuto di rado fasi che si attaglino a queste descrizioni, ma nel recente passato l'idea che questo paese sia una democrazia è diventata apertamente farsesca.

Non disponiamo di nulla se non di vacui orpelli e scarseggia qualsiasi occasione di esercizio del potere da parte del popolo. Questo stato di cose è evidente a chiunque presti attenzione. Gli statunitensi non solo non ottengono ciò che vogliono dal sistema politico, in realtà ottengono l'opposto di quello che vogliono. Di recente il passo dello stato oligarchico ha accelerato, ma la dinamica è evidente da un bel po'.

Anche il mondo accademico ha preso nota e ha dato imprimatur ufficiale a un dibattito ignorato. I professori Martin Gilens della Princeton University e Benjamin Page della Northwestern University sono coautori dello studio
Testing Theories of American Politics: Elites, Interest Groups, and Average Citizens.

"I cittadini comuni non hanno praticamente alcuna influenza"

Anche se il loro lavoro non suggerisce l'uso della parola oligarchia, gli autori sono molto chiari circa i risultati. Il professor Gilens compendia così le conclusioni: "Direi che, contrariamente a ciò che per decenni le ricerche di scienze politiche porterebbero a credere, i cittadini comuni non hanno praticamente alcuna influenza su ciò che fa il governo negli Stati Uniti. Le élite economiche e i circoli soprattutto affaristici, hanno invece un notevole grado di influenza…."

Questo studio introducendosi appena nel
dibattito pubblico, rende evidente agli occhi di tutti il disprezzo della volontà popolare. Se così non fosse, il salario minimo sarebbe più alto, non ci sarebbero tagli ai programmi assistenziali e gli americani avrebbero un unico sistema sanitario.

Non esisterebbero accordi di libero scambio, come NAFTA o TPP, che costringono una corsa al ribasso per i lavoratori, distruggono interi ecosistemi e violano la sovranità nazionale e popolare.

Se questo paese fosse veramente democratico, la città di Detroit non avrebbe presentato istanza di bancarotta per il semplice motivo che gli elettori di Detroit e dello stato del Michigan avrebbero votato per abrogare la legge di emergenza che ha portato al fallimento.

Gli statunitensi non vogliono interventi sempre più frequenti all'estero, imposti da un presidente dopo l'altro. Ma questo è ciò che ottengono.

Vogliamo affrontare i problemi creati dall'uomo sui cambiamenti climatici. Non vogliamo la fratturazione idraulica o l'inquinamento o i terremoti conseguenti, ma è quello che abbiamo. Non vogliamo che i ricchi controllino il processo politico ma la Corte Suprema ha affermato più volte che il denaro spiana il dibattito. In poche parole, il denaro parla e chi non ha soldi non ha voce.

Se così non fosse, i lavoratori americani non sarebbero più poveri dei loro omologhi nel resto del mondo. I cosiddetti lavoratori della classe media in questo paese hanno avuto la distinzione di stare meglio che altrove. Ciò non è più con la stagnazione dei salari e la perdita dei posti di lavoro, in un paese che non pratica la redistribuzione del reddito per tener lontana la povertà.

In un paese democratico, Walmart con i suoi bassi salari non sarebbe il più grande datore di lavoro. La produzione che un tempo dominava il panorama economico impiegherebbe ancora la maggior parte della forza lavoro, con i suoi salari alti e gli altri benefici derivanti dalla sicurezza economica.

In una democrazia, il settore dei servizi finanziari che ha creato la crisi economica mondiale non sarebbe stato salvato. I lavoratori sarebbero stati salvati. Le società non otterrebbero agevolazioni fiscali e altri sussidi governativi. I lavoratori si. E se la classe media avesse avuto voce in capitolo, i grandi banchieri sarebbero da tempo dietro le sbarre.

Il mito della democrazia americana è solo uno dei tanti miti, particolarmente apprezzato per ignoranza e sospensione dell'incredulità. Questo non è un motivo per continuare con la confusione e l'illusione. La sola occasione in cui c'è democrazia è quando proclamiamo che non avendola, la invochiamo chiaramente, inequivocabilmente.

La chimera della democrazia veste panni sempre più lievi intanto che si riduce la qualità della vita. Gli Stati Uniti d'America non sono una nazione democratica se l'unico diritto che i cittadini hanno è di andare in un seggio ogni tot di anni. E' ora di smettere di feticcizzare ciò che chiaramente non funziona per la maggioranza delle persone e iniziare a parlare di qualcosa di nuovo.

Dopo tutto, la definizione di follia è fare la stessa cosa più e più volte, aspettandosi un risultato diverso. L'unico risultato che otteniamo [attraverso l'esercizio del voto] è il dominio delle elite e se questo è accettabile, allora le persone sono veramente folli.




Nero Agenda Report | mltoday.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Le immagini tratte da internet sono state inserite da amministratore Blog