Una buona analisi sulla situazione mondiale anche se il documento è stato redatto il 05/03/2014, cioè prima dell'aggravarsi delle relazioni tra USA/UnioneEuropea e Russia per la questione del golpe in Ucraina.
Higinio
Polo
Il
generale Wesley K. Clark, che fu il comandante supremo della Nato
alla fine degli anni novanta, riconosceva nel 2001 (e pubblicò nel
2003 "Winning Modern Wars: Iraq, Terrorism and the American
Empire) che i piani nordamericani per attaccare l'Iraq avrebbero
trovato continuità in Siria, Libano, Iran, Somalia e Sudan. Dietro
questa pianificazione c'era buona parte dell'establishment
statunitense, nel governo, nel Pentagono, negli istituti di pensiero
o think-tank e nelle corporation, con attori come il corrotto Paul
Wolfowitz (che arrivò ad essere sottosegretario alla difesa e,
precedentemente, ambasciatore in Indonesia, dove sostenne il sinistro
Suharto), portatore della cosiddetta "dottrina Wolfowitz",
che postulava l'unilateralismo nelle relazioni internazionali e le
"guerre preventive" al fine di garantire il predominio
nordamericano nel XXI secolo. In generale, l'intero settore
neoconservatore americano, da Dick Cheney a Donald Rumsfeld passando
per lo stesso George W. Bush, da William Kristol e Richard Perle,
aveva questa visione guerrafondaia, partecipando allo sviluppo dei
piani e delle guerre d'aggressione che hanno insanguinato il primo
decennio del secolo e la cui dinamica è proseguita sotto la
presidenza Obama.
Gli anni di Bush hanno conosciuto
un'offensiva generalizzata nelle diverse aree del mondo, diretta a
imporre il "nuovo secolo americano". Afghanistan e Iraq
sono state le guerre più importanti, conflitti sanguinosi non ancora
chiusi, ma non furono le uniche: guerre segrete di bassa intensità
come quelle imposta a Iran e Pakistan, le operazioni punitive
condotte in diversi paesi di Africa e Asia (Somalia, Sudan, Yemen,
Libia, Siria), i programmi di destabilizzazione nella periferia russa
e nelle regioni cinesi tramite movimenti nazionalisti attestano la
determinazione degli Stati uniti a voler mantenere la propria
egemonia globale con l'uso della forza e della guerra. Alcune di
queste guerre a bassa intensità sono letali: solo in Pakistan,
secondo le stime di Amnesty international, gli Stati uniti hanno
ucciso con i droni oltre quattromila persone negli ultimi dieci anni.
E il presidente Obama non ha affatto chiuso con questa prassi,
anzi.
All'ambizione di rimodellare il Medio oriente, affossare
l'Iran e distruggere gli ultimi alleati di Mosca, sono stati aggiunti
i piani concreti per includere l'Asia centrale nella zona di
influenza di Washington, riducendo la Russia a status di potenza
regionale impotente, e la progettazione di un nuovo "cordone
sanitario" intorno alla Cina, il paese che più di un decennio
fa era ancora la sesta economia mondiale, ma che già si profilava
come una importante sfida strategica per gli Stati uniti. E questo
per una buona ragione: quando incominciò l'invasione nordamericana
dell'Afghanistan, nel 2001, non solamente il Pil degli Stati uniti
superava abbondantemente quello cinese, ma anche Giappone, Germania,
Francia e Gran Bretagna avevano un potere economico maggiore della
Cina. Tuttavia, come già temevano gli analisti dell'establishment
nordamericano, l'impressionante crescita economica cinese avrebbe
cambiato la situazione e tutte le tendenze indicano, secondo le stime
del Fmi, che la Cina sorpasserà (a parità di potere d'acquisto) il
Pil nordamericano nel 2017: tre anni al temuto momento che Washington
ha voluto ostacolare in ogni modo. I problemi si accumulano per
Washington: l'elevato indebitamento (17mila miliardi di dollari di
debito governativo, che salgono a 60mila miliardi se si aggiungono i
debiti dei governi locali degli stati e delle istituzioni
finanziarie), il deplorevole stato delle infrastrutture negli Stati
uniti (ponti, rete viaria, mancanza di nuove comunicazioni), e la
prevedibile fine del ruolo del dollaro come moneta di riserva
internazionale non preannunciano tempi migliori.
Tuttavia, la
pianificazione strategica nordamericana per fermare la propria
relativa decadenza si è rivelata fallimentare, a dispetto di
vittorie regionali, come in Libia, e nonostante mantenga un potere
economico e militare non disprezzabile. L'esplosione della crisi
economica nel 2008 ha acuito le tendenze negative negli Stati uniti,
mostrando il loro graduale indebolimento economico e il fatto di
possedere una percentuale ogni volta minore del Pil mondiale.
L'arrivo di Obama alla presidenza ha fatto supporre una
rielaborazione della politica estera, benché si sia rassegnato ad
accettare molte delle decisioni di Bush (a cominciare dal
mantenimento di Guantánamo e dalle operazioni speciali di assassinio
senza alcun tipo di controllo giudiziale) e sia stato assorbito nelle
dispute domestiche, mentre i circoli di potere si dibattono tra
l'ambizione di mantenere il predominio e la graduale accettazione che
l'ascesa cinese rende inevitabile la negoziazione di un nuovo disegno
strategico mondiale. Con Obama, Washington, senza abbandonare la
vecchia inerzia degli anni di Bush, ha rinunciato a spingere in modo
deciso per l'apertura di una nuova tappa nelle relazioni tra le
grandi potenze, a dispetto dell'annuncio di grandi iniziative (come
quella presentata nel giugno 2013, a Berlino, che offriva un disarmo
nucleare alla Russia e che Mosca non ha preso sul serio per via dei
piani nordamericani per sviluppare lo scudo antimissili) che sono
poco più che operazioni di propaganda.
Il 2013 cominciava con
una tensione senza precedenti tra Stati uniti e Russia, per la legge
Magnitski, appoggiata da Obama (che poneva il veto a diciotto
magistrati e alti funzionari russi), misura a cui la Duma russa
rispose con la legge Dima Yakovlev, (chiamata così per il bambino
russo che morì abbandonato in un'automobile dal padre adottivo
nordamericano), mentre, in cambio, il ministero di esteri russo
pubblicò una lista dove apparivano i nomi dei capi militari di
Guantánamo implicati in torture, come quelli dei consiglieri del
governo e agenti della Dea. Le controversie si
aggravavano.
Nell'aprile 2013, il consigliere per la sicurezza
nazionale nordamericano, Tom Donilon, consegnò una nota di Obama al
presidente russo che affrontava le differenze politiche e militari
sullo scudo antimisili e l'armamento atomico, presentando alcune
proposte commerciali. Il ministro degli esteri russo, Lavrov,
sostiene che la normalizzazione delle relazioni con Washington è una
questione centrale per Mosca, benché sia cosciente che la Russia in
varie occasioni è stata ingannata dagli Stati uniti, i quali sono
venuti meno agli impegni. Lo ha fatto con l'integrazione dell'Europa
orientale nella Nato, con l'incorporazione delle repubbliche baltiche
e continua a farlo col persistente tentativo di impadronirsi di
Ucraina e Georgia, oltre alle operazioni portate avanti in Asia
centrale, alcune pubbliche, altre coperte. Lo ha fatto anche con
l'imposizione di una forza Nato in Afghanistan, con la bugia sullo
scudo antimisili per "difendersi" dall'Iran, e con le
operazioni militari contro Libia e Siria, paesi che mantenevano buoni
rapporti con Mosca. È ovvio che Mosca non possa fidarsi della
serietà delle parole di Washington. L'ultimo rapporto elaborato dal
dipartimento di stato nordamericano sul compimento degli accordi di
disarmo, gettava sale sulle ferite accusando la Russia di non
rispettare la Convenzione sulla proibizione di armi batteriologiche e
tossiche, la Convenzione sulle armi chimiche e gli accordi sulle armi
convenzionali in Europa. La relazione evitava di citare la mancata
ratifica del Trattato sulla proibizione dei test nucleari che
Washington si era impegnata a fare. Non ci sono avanzamenti nei
negoziati sul disarmo, nonostante siano apparse, perfino negli Stati
uniti, serie critiche allo scudo antimisili, come sostenuto da un
gruppo di scienziati del Mit, in particolare dal fisico Theodore
Postol, e a dispetto della proposta di disarmo esposta pubblicamente
da Obama a Berlino.
Putin, come una dimostrazione di buona
volontà, ha accettato di cedere una base alla Nato, a Ulianosvsk,
per la campagna militare nordamericana in Afghanistan, anche se le
differenze sulla Siria (Ginevra 2), sui negoziati con Iran, sullo
scudo antimissili o il previsto ampliamento della Nato verso oriente
e l'intromissione in Ucraina, Moldavia e Georgia, continuano a
deteriorare le loro relazioni. Afghanistan, origine delle rotte della
droga, ha somma importanza per Mosca, e il governo russo è molto
interessato alla pacificazione del paese e alla lotta contro il
narcotraffico, ma niente è certo. Il generale John R. Allen, capo
militare della Nato in Afghanistan (a cui Obama aveva riservato la
direzione dell'alleanza), si è dimesso ed è stato sostituito da
Joseph Dunford Jr, l'uomo che dovrà organizzare il ritiro, mentre le
attività segrete della Cia, dei commandos delle operazioni speciali
di Washington e della stessa Nato hanno alimentato i canali dei
trafficanti di droga afgani e dei signori della guerra. Non bisogna
dimenticare che settori
della Cia e del Pentagono hanno collaborato
con organizzazioni di narcotrafficanti per controllare a distanza le
loro azioni e metterli al servizio dei loro obiettivi di predominio
politico in Asia. Mosca è molto interessata a limitare il flusso di
droghe. La Russia, dove causano migliaia di morti ogni anno, è uno
dei paesi più colpiti del mondo. È certo che in Afghanistan, gli
Stati uniti hanno cercato di combattere le coltivazioni di oppio, ma
la loro politica si trasformata in un evidente fallimento che ha
aggravato la situazione nel paese (molti contadini poveri finiscono
nelle mani dei narcotrafficanti per debiti, dovendo perfino
consegnare in pagamento le proprie figlie), e che diventa una
minaccia per la Russia. Senza dimenticare la sua implicazione nelle
guerre: buona parte delle attività dei gruppi armati che combattono
il governo siriano di Bachar al-Assad si finanziano col narcotraffico
afgano. Víctor Ivanov, responsabile del Fskn russo (l'organismo
preposto al contrasto del narcotraffico), ha affermato che circa
ventimila mercenari presenti in Siria dipendono dal denaro ottenuto
con la vendita di eroina in diversi paesi asiatici ed europei, come
la Russia.
Mentre si indebolisce il potere economico e
politico statunitense, si rafforza la sua macchina bellica. Lo
spiegamento della Nato in Asia intende assicurare il predominio
nordamericano. Le ambizioni su basi militari permanenti in
Afghanistan, Iraq, Kirghizistan (e anche in Uzbekistan), oltre a
Filippine, Indonesia, Giappone e Corea del sud, seguono questa
logica, con la collaborazione della Nato. Inoltre, la diplomazia
nordamericana lavora per inserire nel suo ambito di influenza
Kazakistan e Turkmenistan. Questa strategia non è nuova. Già nel
1997, sotto Yeltsin, e su iniziativa del senatore repubblicano Sam
Brownback, gli Stati uniti approvarono il "Silk road strategy
act" per consolidare i nuovi stati centroasiatici, stimolare le
tendenze di rottura con Mosca, ed attrarli verso la loro sfera di
influenza utilizzando ogni mezzo diplomatico e le operazioni segrete
di Cia, Pentagono e dei servizi segreti alleati, come Arabia, Israele
o Turchia.
Questo ricorso ad operazioni segrete è utilizzato
anche dalle compagnie petrolifere che ingaggiano imprese di
mercenari, fatto che, unito in molte zone all'intervento militare
aperto e al sistematico utilizzo da parte del governo Obama di
compagnie di mercenari ("contractors", secondo l'ipocrita
linguaggio del Pentagono e del dipartimento di stato), ha creato
grande confusione in molte zone alimentando il terrorismo come
reazione, terrorismo che paesi come Cina o Russia si sforzano di
contenere perché temono che aumenti all'interno dei loro paesi. I
recenti attentati in Xinjiang e nel Caucaso russo lo dimostrano.
Questa condotta viene da lontano. Baku, per esempio, è stata
utilizzata per anni dai servizi segreti nordamericani (col governo
azero che chiudeva volontariamente gli occhi), per introdurre
mercenari islamisti nelle regioni russe di Cecenia e Daghestan, molte
volte in collaborazione con la mafia cecena dedita al narcotraffico.
Non bisogna dimenticare che il presidente Ilham Aliyev (come prima
suo padre, il defunto Gueidar Aliyev), che ha ricevuto l'appoggio
delle imprese petrolifere occidentali, dirige un governo-cliente
degli Stati uniti. Le compagnie petrolifere nordamericane (e
britanniche) si riparano dietro lo scudo dei mercenari e la loro
capacità di corrompere funzionari e ministri è una risorsa in più
nello sviluppo dell'influenza politica nordamericana.
La Cina
è il terzo protagonista del triangolo strategico. Le riforme spinte
dal nuovo governo cinese che pretendono, tra le altre cose, la
diminuzione del peso delle esportazioni nella propria economia e lo
sviluppo del mercato interno, si accompagnano a differenti progetti
strategici, in maggioranza orientati al suo rafforzamento economico e
a dare impulso ad un mondo multipolare. La pressione cinese, per
quanto anche russa e di altri paesi, per riformare il Fondo monetario
internazionale, la Banca mondiale e perfino l'Organizzazione mondiale
del commercio, va di pari passo con lo sviluppo di nuovi accordi
commerciali della Cina in differenti aree del pianeta, come
nell'Associazione delle nazioni del sud-est asiatico (Asean), in
paesi americani come Perù, Cile e Costa Rica, in Asia e Oceania
(Nuova Zelanda). La retrocessione del dollaro come moneta, unita alla
crescente internazionalizzazione dello yuan, inaugura nuovi scenari
quasi impensabili fino a pochi anni fa: la Cina ha stipulato accordi
per commerciare nelle rispettive monete, senza utilizzare la valuta
nordamericana, con paesi alquanto rilevanti come Brasile o Giappone e
altri.
Gli Stati uniti rispondono alla nuova realtà con il "
pivot to Asia", proclamato dalla diplomazia nordamericana che
altro non è se non il riconoscimento della progressiva perdita di
influenza nel continente più grande e popolato. Washington è
cosciente che il consolidamento cinese in Asia limita la sua
presenza, benché non rinunci al suo storico protagonismo conquistato
dalla fine della Seconda guerra mondiale. Per questo motivo,
l'apparizione di fuochi di conflitto nel sud-est asiatico, la
periodica ripresa della crisi nella penisola coreana, le decisioni
giapponesi o filippine in materia di dispute marittime, sono
espressione della politica nordamericana di contenimento della Cina,
senza dimenticare l'utilizzo della carta dell'individualismo
nazionalista in Tibet, Xinjiang, o perfino in Mongolia. Washington
continua a contare su solidi alleati in Asia (Giappone, Corea del
Sud, Filippine e Tailandia) e cerca di rafforzare i suoi accordi con
Indonesia, India e Malesia, allettando perfino il Vietnam. Mentre la
Cina vuole aprire canali diplomatici di contrattazione sulle
controversie asiatiche, gli Stati uniti incoraggiano lo scontro e
pretendono inoltre di essere presenti nei negoziati bilaterali tra
paesi. La rivendicazione cinese delle isole Diaoyu (Senkaku, per il
Giappone), occupate dagli Stati uniti alla fine della Seconda guerra
mondiale e trasferite a Tokyo nel 1972, ha dato luogo a nuove
divergenze, potenzialmente pericolose. Pechino esige che i velivoli
che attraversino lo spazio aereo delle isole si identifichino, fatto
che ha portato il segretario per la difesa nordamericano, Chuck
Hagel, a dare garanzie al governo giapponese che Washington
proteggerà militarmente la sovranità nipponica sulle isole, e a
dare istruzioni affinché aerei da guerra pattuglino la zona e
ignorino lo spazio aereo cinese sulle isole. Dei portavoce del
governo nordamericano hanno mostrato la loro preoccupazione per la
condotta cinese che, secondo Washington, "preoccupa i suoi
vicini".
Tra gli obiettivi della diplomazia cinese e
russa vi è un nuovo quadro di relazioni internazionali, che
contemplano anche l'apporto dell'India. In occasione della dodicesima
riunione dei ministri degli esteri cinese, russo ed indiano, a Nuova
Delhi, Wang Yi, il ministro degli esteri cinese proponeva alla fine
del 2013 che Cina, Russia e India spingessero avanti la loro
cooperazione per raggiungere lo status di alleati strategici,
coordinandosi davanti alle crisi e alle dispute internazionali più
rilevanti (con particolare attenzione a Siria, Iran, Afghanistan e
penisola della Corea), con l'obiettivo di democratizzare le relazioni
internazionali ed avanzare verso un mondo multipolare. Il ministro
cinese non ha dimenticato di commentare l'importanza della
cooperazione per sviluppare la proposta di una nuova via della seta,
con le possibilità economiche che essa può aprire. La Cina ha
proposto anche di sviluppare un "corridoio economico" fra
Bangladesh, India, Birmania e Cina, con speciale attenzione al
trasporto ferroviario e alla costruzione di impianti energetici.
La
Cina non punta a sostituirsi agli Stati uniti nella posizione
egemonica sul mondo, ma lavora per sviluppare un nuovo ordine
mondiale che superi la fase di predominio nordamericano, fonte di
molti dei problemi attuali. Non vuole neanche essere trascinata in
confronti militari, benché non smetta per questo di tracciare linee
rosse che gli Stati uniti non devono oltrepassare. Il vecchio mondo
vigilato dal gendarme americano sta giungendo alla fine e le
strutture politiche internazionali scricchiolano. L'ampliamento del
vecchio G-7 e la sua conversione nel G-8 non ha risolto la pratica
inoperosità di questo gruppo che, un quarto di secolo fa, pretendeva
di essere un governo mondiale de facto, diretto dagli Stati uniti. In
realtà, il nuovo G-20 è il riconoscimento del fallimento e
dell'inutilità pratica del G-7, tratto che, unito al rafforzamento
dell'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), asse della
politica estera cinese, e all'apparizione di piattaforme informali
come gli incontri dei Brics, annunciano già il nuovo mondo
multipolare. Di fronte a ciò, non è per caso che Susan Rice,
consigliere per la sicurezza nazionale del governo Obama, insistesse,
alla fine del 2013, sul fatto che l'Asia era "il principale
centro d'attenzione" del suo paese, assicurando il dispiegamento
del sessanta percento della flotta Usa nel Pacifico entro un termine
di cinque o sei anni. Corea del Nord, Giappone, Filippine ed il Mare
della Cina meridionale saranno gli scenari di nuove
controversie.
Gli Stati uniti non hanno ancora rinunciato a
conservare la loro supremazia globale e a questo fine continuano ad
utilizzare la loro capacità diplomatica, l'influenza negli organismi
internazionali, il peso economico e l'impressionante forza militare.
Continuano ad essere la maggiore potenza militare del pianeta, ma
questa circostanza, paradossalmente, non gli consente di vincere le
guerre moderne né di aumentare la propria influenza strategica. Ciò
ha anche creato problemi tra gli alleati di Washington: le relazioni
con Arabia, Israele, Egitto o Pakistan hanno conosciuto tempi
migliori, ed è ovvio che i negoziati aperti con l'Iran sono il
riconoscimento implicito dei limiti della sua politica estera. Le
guerre sono combattute come nel passato, ma anche con droni,
operazioni segrete, commandos per rapire persone, con la tutela dei
gruppi terroristici, il finanziamento di gruppi politici, con lo
spionaggio planetario della Nsa, come evidenziato dal caso Snowden:
gli Stati uniti si sono assegnati lo status di modello da seguire, di
democrazia esemplare, che ha diritto di giudicare il resto dei paesi,
di esigere cambiamenti e decisioni e perfino di imporre la sua
opinione con la forza. Così, è Washington che decide il grado di
democrazia di ogni paese, la giustizia di una decisione e la bontà
di qualunque politica. Chi si oppone alla sua visione e strategia, è
qualificato come tiranno.
Mentre l'Europa non riesce ad uscire
dalla crisi ed emergere come protagonista internazionale, il nuovo
ordine mondiale in arrivo sarà organizzato, con ogni probabilità,
sulla base di tre grandi potenze, Cina, Stati uniti e Russia, e di
una seconda corona di paesi che, con status di potenze regionali,
avranno anche protagonismo internazionale: India, Brasile, Unione
europea (o, in alternativa, la Germania) e Giappone. Gli Stati Uniti
sono riluttanti ad accettarlo, tuttavia, la realtà si impone e le
guerre moderne delle quali parlava il generale Wesley K. Clark non
hanno portato al rafforzamento del potere del cowboy litigioso che è
stato sempre Washington, ed altri fronti hanno fatto la loro
comparsa, fino al punto che il veterano Henry Kissinger, vecchio
criminale di guerra ed attento lettore del mondo che verrà, si
mostra cosciente della diminuzione del potere nordamericano
sostenendo che il nuovo ordine internazionale ruoterà intorno a
Stati uniti, Cina e Russia e ben sapendo che Washington dovrà
condividere l'alba di una nuova era.
Traduzione
per Resistenze.org a cura
del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
Las
guerras de Washington
El
general Wesley K. Clark, que fue comandante supremo de la OTAN a
finales de los años noventa, reconoció en 2001 (y publicó en 2003:
Winning Modern Wars: Iraq, Terrorism and the American Empire)
que los planes norteamericanos para atacar Iraq tendrían continuidad
en Siria, Líbano, Irán, Somalia y Sudán. Detrás de esa
planificación estaba buena parte del establishment
norteamericano, en el gobierno, en el Pentágono, los institutos de
pensamiento o think-tanks, y las corporaciones, con
protagonistas como el corrupto Paul Wolfowitz (que llegó a ser
subsecretario de Defensa (y, antes, embajador en Indonesia, donde
apoyó al siniestro Suharto), quien elaboró la denominada “doctrina
Wolfowitz” que postulaba el unilateralismo en las relaciones
internacionales y las “guerras preventivas” para asegurar el
predominio norteamericano en el siglo XXI. En general, todo el sector
neoconservador norteamericano, desde Dick Cheney hasta Donald
Rumsfeld pasando por el propio George W. Bush, por William Kristol y
Richard Perle, mantenía esa visión belicista y participaron en el
desarrollo de los planes y guerras de agresión que han ensangrentado
la primera década del siglo XXI, y cuya inercia ha continuado
durante el mandato de Obama.
Los
años de Bush vieron una ofensiva generalizada en diferentes áreas
del mundo, dirigida a imponer el “nuevo siglo americano”.
Afganistán e Iraq fueron las guerras más relevantes, sangrientos
conflictos que todavía no se han cerrado, pero no fueron los únicos:
guerras secretas de baja intensidad como las impuestas a Irán
y Pakistán, y operaciones punitivas desarrolladas en diferentes
países de África y Asia (Somalia, Sudán, Yemen, Libia, Siria), y
programas de desestabilización en la periferia rusa y en las
regiones chinas que cuentan con movimientos nacionalistas, dan fe de
la determinación norteamericana de sostener su hegemonía planetaria
con el recurso a la fuerza y a la guerra. Algunas de esas guerras
de baja intensidad son letales: solamente en Pakistán, según
los cálculos de Amnistía Internacional, Estados Unidos ha asesinado
con sus drones a más de cuatro mil personas en la última
década. Y la presidencia de Obama no ha roto, ni mucho menos, con
esa dinámica.
A
la ambición de remodelar Oriente Medio, ahogar a Irán y acabar con
los últimos aliados de Moscú, se añadieron planes concretos para
incluir Asia central en el área de influencia de Washington,
reduciendo a Rusia a la condición de una potencia regional
impotente, y el diseño de un nuevo “cinturón sanitario”
alrededor de China, el país que, hace más de una década, aún era
la sexta economía mundial, pero que se perfilaba ya como un desafío
estratégico de envergadura para Estados Unidos. No era para menos:
cuando se inició la invasión norteamericana de Afganistán, en
2001, no solamente Estados Unidos superaba con creces el PIB chino;
también Japón, Alemania, Francia y Gran Bretaña tenían un poder
económico mayor que China. Sin embargo, como ya temían los
analistas del establishment norteamericano, el impresionante
crecimiento económico chino iba a cambiar la situación, y todas las
tendencias indican, s egún las estimaciones del FMI, que China
sobrepasará (en PPA) el PIB norteamericano en 2017: tres años de
plazo para el temido momento que Washington ha querido impedir por
todos los medios. Los problemas se acumulan para Washington: el
elevado endeudamiento (17 billones de dólares para la deuda
gubernamental… que asciende a 60 billones si se añaden las deudas
de gobiernos locales y Estados e instituciones financieras), el
lamentable estado de las infraestructuras en Estados Unidos (puentes,
red viaria, falta de nuevas comunicaciones), y el previsible fin del
papel del dólar como moneda de reserva internacional no auguran
mejores tiempos.
Sin
embargo, la planificación estratégica norteamericana para detener
su relativa decadencia se ha revelado fallida, pese a victorias
regionales, como Libia, y pese a que mantiene un poder económico y
militar que no es, precisamente, desdeñable. El estallido de la
crisis económica en 2008 agudizó las tendencias negativas en
Estados Unidos, mostrando su paulatino debilitamiento económico y el
hecho de que posee un porcentaje cada vez menor del PIB mundial. La
llegada de Obama a la presidencia supuso la reelaboración de la
política exterior, aunque resignándose a aceptar muchas de las
decisiones de Bush (empezando por el mantenimiento de Guantánamo, y
por la actuación de los grupos de operaciones especiales que
asesinan sin ningún tipo de control judicial), ensimismándose en
las disputas domésticas mientras los círculos de poder se debaten
entre la ambición de mantener el predominio y la paulatina
aceptación de que el ascenso chino hace inevitable la negociación
de un nuevo diseño estratégico mundial. Con Obama, Washington, sin
abandonar la vieja inercia de los años de Bush, ha renunciado a
impulsar de forma decidida la apertura de una nueva etapa en las
relaciones entre las grandes potencias, pese al anuncio de grandes
iniciativas (como la presentada en junio de 2013, en Berlín,
ofreciendo un desarme nuclear a Rusia, que Moscú no tomó en serio a
la vista de los planes norteamericanos de desarrollar escudos
antimisiles), que son poco más que operaciones de propaganda.
El
año 2013, se iniciaba con una tensión sin precedentes entre Estados
Unidos y Rusia, por
la ley Magnitski, apoyada por Obama (que
vetaba a dieciocho magistrados y altos funcionarios rusos), medida
que la Duma rusa contestó con la ley Dima Yákovlev, (llamada
así por un niño ruso adoptado que murió abandonado en un coche por
su padre adoptivo norteamericano), al tiempo que, en reciprocidad, el
Ministerio de Exteriores ruso publicó una lista donde aparecían los
nombres de los jefes militares de Guantánamo, implicados en
torturas, así como asesores del gobierno y agentes de la DEA. Las
disputas se encarnizaban.
En
abril de 2013, el asesor de seguridad nacional norteamericano, Tom
Donilon, entregó una nota de Obama al presidente ruso, abordando las
diferencias políticas y militares, sobre los escudos antimisiles
y el armamento atómico, y presentó algunas propuestas comerciales.
El ministro de Exteriores ruso, Lavrov, mantiene que la normalización
de las relaciones con Washington es una cuestión central para Moscú,
aunque es consciente de que Rusia ha sido engañada en varias
ocasiones por Estados Unidos, faltando a sus compromisos: lo hizo con
la integración del Este de Europa a la OTAN, con incorporación de
las repúblicas bálticas, y continúa haciéndolo con el persistente
intento de apoderarse de Ucrania y Georgia, además de las
operaciones que desarrolla en Asia central, algunas públicas, otras
encubiertas. También lo hizo con la imposición de una fuerza de la
OTAN en Afganistán, con la mentira sobre el escudo antimisiles
para, supuestamente, defenderse de Irán, y con las operaciones
militares contra Libia y Siria, países que mantenían buenas
relaciones con Moscú. Es obvio que Moscú no puede confiar en la
seriedad de las palabras de Washington. El último informe elaborado
por el Departamento de Estado norteamericano sobre el cumplimiento de
los acuerdos de desarme, añadía sal a las heridas acusando a Rusia
de incumplir la Convención sobre prohibición de armas
bacteriológicas y tóxicas, así como la Convención sobre
armas químicas, y los acuerdos sobre armas convencionales en
Europa. El informe obviaba citar la falta de ratificación del
Tratado de Prohibición de Ensayos Nucleares, que Washington
se comprometió a hacer. No hay avances en las negociaciones de
desarme, pese a que, incluso en Estados Unidos, han aparecido serias
críticas al escudo antimisiles, como las defendidas por un
grupo de científicos del MIT, donde destaca el físico Theodore
Postol, y pese a la propuesta de desarme planteada públicamente por
Obama en Berlín.
No
obstante, Putin, como una muestra de buena voluntad, aceptó a ceder
una base a la OTAN, en Ulianosvsk, para la campaña militar
norteamericana en Afganistán, aunque las diferencias sobre Siria
(Ginebra 2), sobre las negociaciones con Irán, el escudo
antimisiles o la prevista ampliación de la OTAN hacia el Este, y
la intromisión en Ucrania, Moldavia y Georgia, siguen dañando sus
relaciones. Afganistán, origen de las rutas de la droga, tiene suma
importancia para Moscú, y el gobierno ruso está muy interesado en
la pacificación del país y en la lucha contra el narcotráfico,
pero nada es seguro: el general John R. Allen, jefe militar de la
OTAN en Afganistán (y a quien Obama le había reservado la jefatura
de la alianza), presentó su renuncia y fue sustituido por Joseph
Dunford Jr., el hombre que deberá organizar la retirada, mientras
las actividades secretas de la CIA, de los comandos de operaciones
especiales de Washington, y de la propia OTAN, han alimentado los
canales de los traficantes de drogas afganos y de los señores de
la guerra. No hay que olvidar que sectores de la CIA y del
Pentágono han colaborado con organizaciones de narcotraficantes para
teledirigir sus acciones y ponerlas al servicio de sus propios
objetivos: el predominio político en Asia. Moscú está muy
interesada en limitar el flujo de drogas: Rusia, donde causan miles
de muertes cada año, es uno de los países más afectados del mundo.
Es cierto que, en Afganistán, Estados Unidos ha intentado combatir
los cultivos de opio, pero su política se ha saldado con un evidente
fracaso, que ha agravado la situación en el país (muchos campesinos
pobres acaban en manos de los narcotraficantes por deudas, y deben,
incluso, entregar en pago a sus propias hijas) y que amenaza a Rusia.
Sin olvidar su implicación en las guerras: buena parte de las
actividades de los grupos armados que combaten al gobierno sirio de
Bachar al-Asad se financian con el narcotráfico afgano: Víctor
Ivanov, responsable del FSKN ruso (el organismo para combatir el
narcotráfico) ha afirmado que unos veinte mil mercenarios presentes
en Siria dependen del dinero conseguido con la venta de heroína en
diferentes países asiáticos y europeos, como Rusia.
Mientras
se debilita el poder económico y político estadounidense, se
fortalece su maquinaria bélica. El despliegue de la OTAN en Asia
pretende asegurar el predominio norteamericano: las ambiciones sobre
bases militares permanentes en Afganistán, Iraq, Kirguizistán (e,
incluso, en Uzbekistán), además de en Filipinas, Indonesia, Japón
y Corea del sur, tienen esa lógica, y la OTAN colabora con ella.
Además, la diplomacia norteamericana trabaja para atraerse a su
ámbito de influencia a Kazajastán y Turkmenistán. Esa estrategia
no es nueva: ya en 1997, bajo Yeltsin, y a iniciativa del senador
republicano Sam Brownback, Estados Unidos aprobó la Silk Road
Strategy Act para consolidar los nuevos Estados centroasiáticos,
estimular las tendencias de ruptura con Moscú, y atraerlos hacia su
ámbito de influencia, utilizando todo tipo de medios diplomáticos y
también operaciones secretas de la CIA, el Pentágono y de servicios
de inteligencia aliados, como Arabia, Israel o Turquía.
Ese
recurso a operaciones secretas es utilizado también por las
compañías petroleras, que contratan empresas de mercenarios, hecho
que, junto a la intervención militar abierta en muchas zonas, y la
sistemática utilización por parte del gobierno de Obama de
compañías de mercenarios (“contratistas”, según el hipócrita
lenguaje del Pentágono y del Departamento de Estado), ha creado una
mayor confusión en muchas zonas y alimenta el terrorismo como
reacción, terrorismo que países como China o Rusia se esfuerzan por
contener porque temen que aumente en el interior de sus países: los
recientes atentados en Xinjiang y en el Cáucaso ruso así lo
muestran. Ese proceder viene de lejos: Bakú, por ejemplo, ha sido
utilizada desde hace años por los servicios secretos norteamericanos
(con el gobierno azerí cerrando voluntariamente los ojos) para
introducir mercenarios islamistas en las regiones rusas de Chechenia
y Daguestán, muchas veces en colaboración con la mafia chechena
dedicada al narcotráfico. No hay que olvidar que el presidente Ilham
Aliyev (como antes su padre, el ya fallecido Gueidar Aliyev), que
recibió apoyo de las empresas petrolíferas occidentales, dirige un
gobierno-cliente de Estados Unidos. Las compañías petroleras
norteamericanas (y británicas) permanecen tras esas pantallas de
mercenarios, y su capacidad para corromper funcionarios y ministros
es un recurso más en el desarrollo de la influencia política
norteamericana.
China
es el tercer protagonista del triángulo estratégico. Las reformas
impulsadas por el nuevo gobierno chino, que pretenden, entre otras
cosas, la disminución del peso de las exportaciones en su economía,
y el desarrollo del mercado interno, se acompañan de diferentes
proyectos estratégicos, la mayoría orientados a su reforzamiento
económico y al impulso de un mundo multipolar. La presión china,
aunque también rusa y de otros países, para reformar el FMI, el
Banco Mundial e incluso la OMC, va de la mano del desarrollo de
nuevos acuerdos comerciales de China en diferentes áreas del
planeta, como en la ASEAN, en países americanos como Perú, Chile y
Costa Rica, y en Asia y Oceanía (Nueva Zelanda); y del retroceso del
dólar como moneda, junto a la creciente internacionalización del
yuan, inaugura nuevos escenarios casi impensables hace pocos años:
China ha cerrado acuerdos para comerciar en las respectivas monedas,
sin utilizar la divisa norteamericana, con países tan relevantes
como Brasil o Japón, y otros.
Estados
Unidos responde a la nueva realidad con el “giro hacia Asia”,
proclamado por la diplomacia norteamericana, cuya expresión no deja
de ser el reconocimiento de su pérdida progresiva de influencia en
el mayor continente y el más poblado. Washington es consciente de
que el fortalecimiento chino en Asia va a limitar su presencia,
aunque no renuncia a perder su histórico protagonismo conquistado
desde el fin de la Segunda Guerra Mundial: por eso, la aparición de
focos de conflicto en el sudeste asiático, la periódica
reactivación de crisis en la península coreana, decisiones
japonesas o filipinas a propósito de disputas marítimas, son la
expresión de la política norteamericana de contención a China, sin
olvidar que también utiliza las cartas del particularismo
nacionalista en Tíbet, Xinjiang, o incluso en Mongolia interior.
Washington sigue contando con sólidos aliados en Asia: Japón, Corea
del Sur, Filipinas y Thailandia, y pretende reforzar sus acuerdos con
Indonesia, India y Malaisia, tentando incluso a Vietnam. Mientras
China pretende abrir canales diplomáticos de negociación de las
disputas asiáticas, Estados Unidos estimula enfrentamientos y
pretende, además, estar presente en las negociaciones bilaterales
entre países. La reclamación china de las islas Diaoyu (Senkaku,
para Japón), ocupadas por Estados Unidos al final de la Segunda
Guerra Mundial, y traspasadas a Tokio en 1972, ha dado lugar a nuevos
enfrentamientos, potencialmente peligrosos. Pekín exige que los
aviones que atraviesen el espacio aéreo de las islas se
identifiquen, lo que ha llevado al secretario de Defensa
norteamericano, Chuck Hagel, a dar garantías al gobierno japonés de
que Washington protegerá militarmente la soberanía nipona sobre las
islas, y a dar instrucciones para que sus aviones de guerra patrullen
la zona e ignoren el espacio aéreo chino sobre las islas. Portavoces
del gobierno norteamericano mostraron su preocupación por el
proceder chino que, según Washington, “inquieta a sus vecinos”.
Un
nuevo marco de relaciones internacionales está entre los objetivos
de la diplomacia china y rusa, que contemplan también la aportación
de la India. Con ocasión de la duodécima reunión de los ministros
de exteriores chino, ruso e indio, en Nueva Delhi, Wang Yi, ministro
de Asuntos Exteriores chino, proponía a finales de 2013 que China,
Rusia y la India impulsaran su cooperación para alcanzar la
condición de aliados estratégicos, coordinándose ante las crisis y
disputas internacionales más relevantes (con especial atención a
Siria, Irán, Afganistán y la península de Corea), con el objetivo
de democratizar las relaciones internacionales y avanzar hacia un
mundo multipolar. El ministro chino no olvidó reseñar la
importancia de la cooperación para desarrollar la propuesta de la
nueva ruta de la seda, con las posibilidades económicas que
puede abrir. China ha propuesto también desarrollar un “corredor
económico” que una Bangla Desh, India, Birmania y China, con
especial atención a los transportes ferroviarios y la construcción
de plantas energéticas.
China
no apuesta por sustituir a Estados Unidos en una posición hegemónica
en el mundo, pero trabaja por desarrollar un nuevo orden mundial, que
supere la etapa de predominio norteamericano, fuente de muchos de los
problemas actuales. Tampoco quiere verse arrastrada a enfrentamientos
militares, aunque no deja por ello de definir las líneas rojas
que Estados Unidos no debe traspasar. El viejo mundo vigilado por el
gendarme americano está llegando a su fin, y las estructuras
políticas internacionales crujen. La ampliación del viejo G-7 y su
conversión en el G-8 no han resuelto la práctica inoperancia de
este grupo que, hace un cuarto de siglo, pretendía ser un gobierno
mundial de facto, dirigido por Estados Unidos. De hecho, el
nuevo G-20 es el reconocimiento del fracaso y de la inutilidad
práctica del G-7, rasgo que, unido al reforzamiento de la OCS, eje
de la política exterior china, y a la aparición de plataformas
informales como los encuentros de los BRICS, anuncian ya el nuevo
mundo multipolar. Ante ello, no es ninguna casualidad que Susan Rice,
asesora para la Seguridad Nacional del gobierno de Obama, insistiese,
a finales de 2013, en que Asia era “el principal foco de atención”
de su país, asegurando que el sesenta por ciento de su flota estaría
centrado en el Pacífico en un plazo de cinco o seis años. Corea del
Norte, Japón, Filipinas y el Mar de la China meridional serán
escenarios de nuevas disputas.
Estados
Unidos todavía no ha renunciado a mantener la supremacía global, y
sigue utilizando para ello su capacidad diplomática, su influencia
en los organismos internacionales, su peso económico y su
impresionante fuerza militar. Continúa siendo la mayor potencia
militar del planeta, pero esa circunstancia no le permite,
paradójicamente, ganar las guerras modernas ni aumentar su
influencia estratégica. Incluso le ha creado problemas entre sus
aliados: sus relaciones con Arabia, Israel, Egipto o Pakistán, no
pasan por sus mejores momentos, y es obvio que las negociaciones
abiertas con Irán son el reconocimiento implícito de los límites
de su política exterior. Las guerras se libran como en el
pasado, pero también con drones, operaciones secretas,
comandos para raptar personas, con el pupilaje de grupos terroristas,
la financiación de grupos políticos, con el espionaje planetario de
la NSA, como ha puesto de manifiesto el caso Snowden: Estados Unidos
se ha adjudicado la condición de modelo a seguir, de democracia
ejemplar, que tiene derecho a juzgar al resto de los países, a
exigir cambios y decisiones, e incluso a imponer su opinión por la
fuerza. Así, es Washington quién decide el grado de democracia de
cada país, la justicia de una decisión y la bondad de cualquier
política. Quienes se oponen a su visión y a su estrategia, son
calificados de tiranías.
Mientras Europa
no consigue salir de la crisis para emerger como un protagonista
internacional, el nuevo orden mundial que llega estará organizado,
con toda probabilidad, alrededor de tres grandes potencias, China,
Estados Unidos y Rusia, y una segunda corona de países que, con
estatus de potencias regionales, tendrán también protagonismo
internacional: India, Brasil, Unión Europea (o, en su defecto,
Alemania), y Japón. Estados Unidos se resiste a aceptarlo; sin
embargo, la realidad se impone, y las guerras modernas de las que
hablaba el general Wesley K. Clark no han traído el fortalecimiento
del poder del cowboy pendenciero que siempre ha sido
Washington, y otros frentes han aparecido, hasta el punto de que el
veterano Henry Kissinger, viejo criminal de guerra y atento lector
del mundo que viene, se revela consciente de la disminución del
poder norteamericano, y mantiene que el nuevo orden internacional
girará en torno a Estados Unidos, China y Rusia: sabe que Washington
debe compartir la aurora de un tiempo nuevo.
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