La
pace è un diritto di tutti i colombiani
12/04/2014
Il
26 Agosto 2012, a L'Avana, Cuba, le Forze Armate Rivoluzionarie della
Colombia - Esercito del Popolo (FARC - EP) e il governo della
Colombia hanno firmato uno storico e speranzoso "Accordo
generale per la fine del conflitto".
Il
18 ottobre di quell'anno diedero inizio alle "conversazioni
dirette e ininterrotte sui punti dell'agenda", conosciuti come i
dialoghi de L'Avana, "al
fine di raggiungere un Accordo Finale per la risoluzione del
conflitto che contribuisce alla costruzione di una pace stabile e
duratura".
I
punti dell'agenda sono: 1) Politica di sviluppo agrario integrale; 2)
Partecipazione politica; 3) Fine del conflitto; 4) Soluzione al
problema delle droghe illecite; 5) Vittime; 6) Attuazione, verifica e
controfirma.
Diverse sfide si devono superare nell'obiettivo
di garantire "l'efficacia del processo e completare il lavoro
sui punti dell'agenda in maniera spedita e nel più breve tempo
possibile" e, nonostante le diverse visioni di ciò che
significa "nel più breve tempo possibile", sono stati
raggiunti una serie d'accordi nei primi due punti dell'agenda.
Le
più diverse organizzazioni politiche e sociali, dentro e fuori la
Colombia, seguono e sostengono in modo solidale e attivo questi
dialoghi, essendo parte delle ampie, massicce e popolari
mobilitazioni per fare pressione al governo di Juan Manuel Santos
perché assuma seriamente la generazione di condizioni e garanzie per
raggiungere un accordo di pace su una solida base di vera democrazia,
giustizia sociale e sovranità.
Le FARC-EP evidenziano che le
loro bandiere storiche "sono in primo ordine della lotta
politica", in modo che il governo sappia che "non siamo né
staremo in piani di resa", e che "l'unica via d'uscita è
quella di risolvere i problemi che hanno generato il
conflitto".
Assumendo l'impegno con i colloqui di pace,
una Commissione del Partito Comunista del Venezuela (PCV), guidata
dal suo Segretario Generale, Oscar Figuera, ha tenuto riunioni nella
capitale cubana con la Delegazione di Pace delle FARC-EP,
organizzazione guerrigliera che il prossimo 27 maggio arriverà ai
suoi 50 anni.
Nel quadro di queste riunioni, Tribuna
Popolar
ha realizzato una intervista esclusiva con Iván Márquez, membro
della Segreteria delle FARC-EP e Jesús Santrich, dello Stato
Maggiore Centrale, che riproduciamo integralmente di seguito:
TP:
L'accordo generale sottoscritto con il Governo colombiano si pone
l'obiettivo di "porre fine al conflitto", la conquista del
Potere politico e la costruzione del Socialismo sono ancora gli
obiettivi delle FARC-EP?
-
Ciò che stiamo discutendo sono punti di approccio per risolvere
essenzialmente le cause della miseria, della disuguaglianza e della
mancanza di democrazia, raccogliendo in particolare le iniziative
popolari in questo campo.
Siamo consapevoli che al tavolo non
andiamo a fare la rivoluzione, ma nemmeno si tratta che il governo
ottenga una pace conveniente senza cambiamento nelle ingiuste
strutture. Questo dipende dall'azione organizzata delle masse; è per
questo che quelle che stiamo discutendo sono le proposte minime e non
il nostro programma rivoluzionario fino al Socialismo, al quale non
rinunceremo mai.
TP:
Che cosa intendete per "fine del conflitto"?
-
La fine del conflitto ha due livelli specifici: uno è la fine dello
scontro militare propriamente detto e l'altro, la fine dello scontro
sociale che deriva dai profondi problemi d'ordine politico, economico
e sociale che patisce la maggioranza.
Combinando i due
fattori, la fine del conflitto significherà l'inizio di un lungo
periodo di tregua bilaterale che permetta di materializzare gli
impegni concreti di cambiamento che si raggiungeranno al tavolo, ma
con la partecipazione attiva, protagonista del movimento
popolare.
Ciò sarà sicuramente accompagnato da un processo
costituente per riconfigurare l'ordinamento politico e sociale del
paese. In Colombia si devono creare le condizioni e le garanzie per
l'esistenza di una democrazia reale che permetta la soluzione civile
delle aspettative delle comunità.
TP:
E' passato un anno e mezzo dalla firma dell'accordo generale,
rimanete ottimisti circa le possibilità di raggiungere una "pace
stabile e duratura"?
-
Abbiamo raggiunto due accordi parziali, molto importanti sulla
trasformazione agraria e sulla partecipazione politica e siamo in
procinto di realizzare qualcosa di simile sulla questione della
sostituzione delle coltivazioni illecite che è parte di un problema
sociale maggiore rappresentato dal narcotraffico, che tocca l'intero
tessuto sociale e attraversa l'insieme delle istituzioni in
Colombia.
Questo ed il grande sostegno sia a livello nazionale
che internazionale, che ha il processo, ci danno l'ottimismo per
restare al tavolo del dialogo.
TP:
In quali temi del dialogo vi sono grandi differenze con il Governo?
Quali sono i nodi che sembrano più difficili da superare?
-
Tra il primo e il secondo punto abbiamo accumulato 24 titoli che
raccolgono temi rispetto ai quali vi è l'impegno a ridiscutere e
trovare soluzioni, perché sono elementi nodali, insormontabili,
senza i quali non si potrà concludere un accordo definitivo.
Essi
sono pubblicati in dettaglio nei nostri siti di diffusione, ma
possiamo dirvi che i primi ruotano attorno la proprietà, possesso ed
uso della terra, concretamente sulla necessità di porre fine al
latifondo, arginare la proprietà straniera della terra per
realizzare una vera e propria redistribuzione, che ponga fine a
questo scandaloso accaparramento della terra che esiste nel
settore.
Su questo stesso piano si pone il problema dei
conflitti d'uso della terra, che hanno a che fare con la nefasta
presenza degli allevamenti di bestiame e che riguarda quasi 40
milioni di ettari (un terzo del territorio nazionale) e la pericolosa
espansione delle miniere energetiche che minaccia pericolosamente
l'equilibrio ambientale e la sostenibilità dell'economia. Annessa vi
è la presenza rifiutata dei trattati di libero scambio, al fine di
stabilire il cosiddetto diritto reale di superficie, tra gli altri
elementi che mirano ad una campagna senza contadini per fare spazio
agli interessi delle multinazionali. Su questo punto, il
riordinamento territoriale è di interesse fondamentale.
I
secondi riguardano l'esercizio della democrazia, la ristrutturazione
istituzionale e dello Stato, che con urgenza reclama la Colombia in
materia elettorale, giustizia, politica economica, organismi di
controllo, salute, istruzione, ecc., ma soprattutto l'aspetto della
Dottrina della Sicurezza Nazionale, in particolar modo le modifiche
che richiedono le norme di sicurezza cittadina, che oggi
criminalizzano in modo estremo la protesta sociale.
Non
vediamo alcuna difficoltà che tutto quello menzionato possa essere
risolto, perché dopo un progresso come quello già raggiunto, si
deve dare una maggiore partecipazione della cittadinanza, della
sovranità ed è logico che sia una Assemblea Nazionale Costituente
che, dopo aver risolto le differenze, ci dia un trattato di
pace.
TP:
Perché questi colloqui di pace si tengono fuori dalla Colombia? Vi è
la partecipazione reale ed effettiva del popolo colombiano?
-
Non sempre le FARC hanno dialogato in territorio colombiano; ci sono
stati colloqui a Caracas e poi a Tlaxcala, Messico. L'insistenza che
i colloqui si facessero in Colombia era per avere una maggiore
partecipazione della comunità nel definire i problemi che sono di
interesse nazionale. Ma l'intransigenza del governo ad ammettere che
i dialoghi si sviluppassero nel paese, potrebbe vanificare la
possibilità della riconciliazione.
Per questo abbiamo deciso
di non rendere questo tema una questione di principio, soprattutto
quando siamo riusciti a concordare il fatto che sarebbero stati
realizzati sul territorio nazionale forum di discussione e meccanismi
per far sì che la gente potesse presenziare a L'Avana, fino alla
promessa di voli charter per i connazionali che volevano partecipare;
promessa che, finora, non si è materializzata e piuttosto si è
minacciato di perseguire coloro che si spostavano a Cuba per parlare
con la Delegazione di Pace della guerriglia.
D'altra parte,
l'idea che la sede fosse Cuba, paese garante, con il forte sostegno
del Venezuela, ha fornito un carattere di sicurezza e di fiducia
assoluta nella fase dei colloqui. Siamo pienamente soddisfatti che
questi colloqui di pace si svolgono nell'Isola della libertà. Le
FARC sono molto grate a Cuba, al suo governo e al suo popolo, che
hanno accolto con rispetto e imparzialità le parti.
Infine,
riteniamo che per quanto riguarda la partecipazione delle persone
alla costruzione degli accordi, l'ostacolo non è la geografia, ma la
disposizione che esiste nel governo a includere le proposte che le
organizzazioni sociali e politiche del paese hanno trasmesso al
tavolo. E' necessario che i cittadini conoscano i progressi e le
questioni in cui non c'è accordo, in modo da poter decidere sulle
soluzioni; in questo modo ciò su cui ci si accorda risponde alle
aspirazioni della maggioranza che vuole cambiamenti strutturali nel
nostro paese.
TP:
Perché sono falliti i dialoghi precedenti? Quali sono le differenze
con il processo in corso?
-
Uribe [1984] fallì perché, dopo la firma dell'accordo e
dell'emergere dell'Unione Patriottica per far politica in condizioni
di democrazia, ci furono incompiutezze, violazioni al cessate il
fuoco bilaterale ed una ondata di assassini contro dirigenti e
militanti del nuovo movimento che divenne il più grande genocidio
politico della storia recente dell'America Latina.
Caracas
[1991] e Tlaxcala [1992] fallirono perché invece di risolvere i
profondi problemi sociali che hanno generato lo scontro, il governo
decise di soddisfare l'accordo di Washington e dare corso
all'apertura economica neoliberale che approfondì le condizioni di
miseria e disuguaglianza in Colombia.
Come lo stesso
presidente Pastrana ha confessato nelle sue memorie del processo, il
governo non ha cercato la riconciliazione a Caguan [1998-2002], ma
cercava di guadagnare tempo per riprogettare l'esercito. Necessitava
di frenare la dinamica di sconfitte successive di quell'esercito per
mano della guerriglia ed eliminare ogni espressione di
insoddisfazione relativa all'approfondimento del neoliberismo. Non
c'era alcun desiderio di pace in quel governo; infatti, in pieno
sviluppo dei dialoghi, tollerò massacri paramilitari contro la
popolazione e una volta che gli strateghi di Washington avevano
pronto il Plan Colombia, con un qualsiasi pretesto ruppe il dialogo e
scatenò la guerra.
Nonostante tutto questo, abbiamo
persistito nella ricerca di soluzioni politiche, perché la pace è
il nostro proposito strategico. Vediamo che è possibile avere
formule per risolvere i problemi essenziali sulla proprietà e
l'utilizzo della terra, aprire le porte alla partecipazione politica
dei cittadini e generare cambiamenti strutturali che favoriscano la
maggioranza sociale; per questo siamo a L'Avana.
Se si osserva
bene, il fattore comune di blocco e fallimento nei tre tentativi di
pace attraverso il dialogo, è stato pretendere la smobilitazione
dell'insurgencia senza cambiamenti nelle ingiuste strutture
politiche, economiche e sociali.
La differenza sta nel fatto
che il governo ha un'esperienza; sa che non siamo mai stati e mai
saremo per i piani di resa e ciò gli dà abbastanza elementi per
capire che l'unica via d'uscita è quella di risolvere i problemi che
hanno causato il conflitto, se si vuole costruire la pace su solide
fondamenta.
TP:
Il governo colombiano ha negato di accettare un cessate il fuoco
bilaterale e ha persistito nella sua linea militarista, pensate che
abbia reale volontà di raggiungere accordi di pace?
-
Il militarismo è uno degli elementi da rimuovere da qualsiasi
scenario di dibattito politico. Quando il governo deciderà di
lasciarsi alle spalle l'aspetto già citato della Dottrina di
Sicurezza Nazionale, la concezione del nemico interno e il
paramilitarismo, vale a dire, della guerra sporca, potremmo dire che
si è passati dalla retorica alla pratica, per quanto concerne una
volontà di pace certa.
Nel frattempo noi, con le
dichiarazioni di tregua unilaterale e molti altri segnali di volontà
di riconciliazione, abbiamo cercato di contribuire a creare
l'ambiente migliore per approcciare ed alleviare la popolazione dalle
dure conseguenze della guerra. Speriamo che a un certo punto il
governo assuma lo stesso atteggiamento e abbandoni l'idea vana che
con la pressione militare raggiungerà vantaggi al Tavolo, perché
qui i vantaggi non devono essere per nessuna delle parti in
particolare, ma per l'intera società.
TP:
Permetterà l'oligarchia colombiana che avanzino gli sforzi di pace e
le garanzie di partecipazione politica democratica?
-
L'idea del dialogo è precisamente costruire gli spazi di
partecipazione democratica. Questo non è facile, perché al di là
di esprimere la disponibilità a parole, bisogna esprimerla nella
pratica ed è questo ultimo aspetto su cui noi richiamiamo
attenzione. Per questo abbiamo detto che sono obbligatori cambiamenti
di fatto, che trascendono dalla retorica del governo.
Finora
gli assassini non si sono fermati, la persecuzione dei dirigenti
popolari, l'incarcerazione e la criminalizzazione della protesta
sociale, nemmeno, quindi il nostro ottimismo è moderato perché la
realtà nella quale costantemente appaiono i denti del militarismo,
riempie il cammino d'incertezze.
Non abbiamo mai dimenticato
che le élites colombiane, sono élite sanguinarie. Ci auguriamo che
la controparte rettifichi e che i fattori fascisti che alimentano la
guerra e la degradano, come l'uribismo, affoghino nel loro
fango.
TP:
L'accordo sottoscritto stabilisce che il Governo dovrebbe combattere
le organizzazioni criminali, ma sono noti i suoi legami storici con
il paramilitarismo, che aspettative avete che si compia questo
punto?
-
Questo ha a che fare con la questione della dottrina di Sicurezza. Se
questa non cambia è impossibile che il paramilitarismo o il nome che
gli danno, come l'attuale di bande criminali (BACRIM), finisca. Se
non c'è una decisione politica tagliente, saremo semplicemente
condannati ad un altro fallimento, perché la guerra sporca si
erigerà, come previsto dal Procuratore Generale della Nazione,
Eduardo Montealegre, nel principale ostacolo alla pace. Quindi questo
è un aspetto che implica non solo aspettative.
In questo non
possiamo fare affidamento solo a promesse, ma a fatti palpabili. La
disattivazione del paramilitarismo deve essere visibile a tutti e
questo implica una depurazione delle istituzione armata compresa la
smilitarizzazione dello Stato e della società.
TP:
Avete previsto il tempo in cui potrà avvenire la firma dell'Accordo
Finale?
-
In questo impegno dobbiamo spendere tutto il tempo necessario senza
dipendere da premure elettorali, legislative o di qualsiasi altro
tipo. Inoltre, la pace deve essere una politica di Stato e non
ubbidire agli interessi o capricci di alcun governo in particolare,
perché questo è un confronto che già compie mezzo secolo e quindi
richiede un'analisi riposante delle sue cause e soluzioni. Da parte
nostra, lavoriamo instancabilmente perché si realizzi nel più breve
tempo possibile.
TP:
Per rafforzare il processo di pace, che ruolo deve avere il Congresso
eletto lo scorso 9 marzo?
-
Il Congresso della Repubblica recentemente eletto, con poche
eccezioni, è la riedizione di una istituzione screditata e corrotta
con la quale, purtroppo, si avrà a che fare per realizzare qualsiasi
accordo politico a favore della pace, ma non per realizzare le
trasformazioni che sono necessarie, perché qui non vi è alcuna
autorità né volontà per rendere questo possibile.
Tuttavia
il meccanismo di controfirma per il processo, deve contare, se
seguiamo la via delle formalità, sul parlamento. E' già chiaro che
non sarà attraverso il referendum [proposto da Santos lo scorso
anno] che si mirava ad imporre per realizzarlo in queste elezioni.
Quel tentativo definitivamente si è affondato. Ma ancora si deve
trovare una soluzione che concili il senso del governo e delle FARC,
ma soprattutto che apra ampi spazi di partecipazione dei
cittadini.
La nostra proposta è la Costituente, ma questo è
qualcosa da discutere, per farlo convergere con quello che pensa il
governo e qualsiasi altra iniziativa che possa dare protagonismo alla
sovranità, perché in definitiva è il popolo che deve avere
l'ultima parola.
TP:
Il prossimo 25 maggio vi sono le elezioni presidenziali in Colombia,
quanto dipende da queste elezioni il processo di pace?
-
Come abbiamo detto poco fa, la pace come proposito superiore dovrà
contare su una politica statale e non fare affidamento su congiunture
legislative o elettorali o capricci di partiti o governi. Tutti i
candidati dovranno essere impegnati con l'obiettivo di portare avanti
i dialoghi.
Ci auguriamo che questo sia proprio così, con la
consapevolezza che la pace non deve essere di destra o di sinistra,
per liberali, conservatori, verdi o comunisti; la pace è un diritto
per tutti i colombiani. E deve essere costruita sulle basi della vera
democrazia, la giustizia sociale e la sovranità.
TP:
Già è definita la figura o il tipo di organizzazione con il quale
si agirà politicamente nella vita civile? Quali tattiche -
differenti alla lotta guerrigliera - si propongono di sviluppare?
-
La transizione verso forme di lotta che non richiedono l'uso delle
armi dipende dai cambiamenti di fatto che saranno raggiunti in
materia di democrazia e redistribuzione della ricchezza; dipende se
la Colombia riprende la sua indipendenza e sovranità e se il governo
che si stabilisce attende agli interessi popolari.
Questo non
accadrà da un giorno all'altro, ma implica che dobbiamo
sperimentare, in mezzo alla tregua, nella pratica, che l'impegno
dello Stato verso la pace, è vero. Per questo, senza dubbio, si
agirà con gli strumenti della lotta politica aperta, in un'ampia
convergenza con i settori popolari e democratici del paese che finora
il sistema mantiene in una situazione di esclusione o emarginazione.
In questo esercizio, sicuramente il nome storico delle FARC manterrà
la sua presenza.
TP:
La prospettiva reale di porre fine al conflitto ha inciso nella
disposizione al combattimento della guerriglia?
-
Nella coscienza dei guerriglieri delle FARC quello che si inculca,
come costante, è che il proposito maggiore della nostra lotta è la
pace con giustizia sociale e che le armi sono solo uno strumento per
raggiungerla in circostanze difficili, di guerra sporca, di chiusura
degli spazi di partecipazione, di terrorismo di Stato e asimmetrie,
ma le armi non sono un fine in sé; la cosa più importante sono le
finalità per cui lotta la nostra gente, in modo che sia preparata ad
agire in qualsiasi campo, con le armi o senza armi. Ricordiamo che le
FARC sono un esercito, ma soprattutto, sono un Partito politico
rivoluzionario.
TP:
Dopo 50 anni di lotta, il progetto politico delle FARC-EP continua ad
essere valido e con prospettive di futuro?
-
Il programma politico delle FARC è assolutamente valido, soprattutto
considerando che le cause che generarono il confronto, piuttosto che
risolversi, si sono approfondite. Le ragioni per l'utilizzo delle
armi si mantengono e speriamo che questi dialoghi pongano le basi per
convincerci che in futuro non sarà più necessario il loro utilizzo,
ma le bandiere che solleviamo per la terra e il territorio, per la
fondazione della democrazia, il cambiamento della politica economica,
la difesa della sovranità, ecc., sono in primo ordine della lotta
politica, perché sono le principali aspirazioni della
maggioranza.
Dopo 50 anni di lotta, non hanno mai avuto così
tante possibilità di trionfo le bandiere rivoluzionarie delle
FARC.
TP:
Come si garantisce la continuità politico-militare delle FARC-EP
nella sua direzione?
-
Questa è un organizzazione politico-militare bolivariana, con
struttura organizzativa leninista, che implica la direzione
collettiva, l'accumulazione ordinata delle esperienze, la permanenza
di scuole di formazione quadri, l'esistenza di strutture
centralizzate, una forte democrazia interna, ma anche con
significativi livelli di partizionamento che consentono la
preparazione e la preservazione di una componente umana di elevata
morale, pronta ad assumersi le responsabilità che corrispondano
indipendentemente dal fatto che le circostanze siano favorevoli o
avverse.
La conduzione delle FARC non è unipersonale in
nessuno dei livelli, non si trovano dei signori della guerra e per
questo nelle sue strutture di direzione si ottiene un'adeguata
preparazione della militanza. Essa si proietta verso tutti i
combattenti, che oltre ad agire in squadre, guerriglie, compagnie e
colonne militari, funzionano come cellule politiche che danno vita
all'esistenza di un Partito rivoluzionario che supera la componente
strettamente militare.
TP:
Come si coniuga l'ideale bolivariano e la concezione marxista-
leninista nelle file delle FARC -EP?
-
Come marxisti e leninisti abbiamo una formazione che ci dà la
convinzione della possibilità reale di conquistare un mondo
migliore. Crediamo nella necessità di superare il capitalismo come
modo di produzione, attualmente in crisi sistemica e decadenza, che
sta mettendo a rischio l'esistenza stessa del pianeta.
E siamo
certi che l'alternativa è il socialismo come formazione
economico-sociale che mette fine alla mercificazione dell'esistenza,
con la sua reificazione e mette in cima alle sue preoccupazioni
l'essere umano in armonia con i suoi simili e la natura.
Questo
tipo di pensiero coincide pienamente con l'insegnamento dell'ideale
del Libertador nel piano della solidarietà umana, il senso della
patria e la sommatoria della felicità.
La convergenza di
questi due pensieri ci dà il senso di quello che dovrebbe essere
l'unità della Nostra America secondo un nuovo ordine sociale che
beneficia la maggioranza sociale, soprattutto gli oppressi; per
questo la nostra parola d'ordine è Patria Grande e Socialismo, nel
miglior senso bolivariano e marxista che possono avere queste
categorie.
Entrevista
exclusiva a la Delegación de Paz de las FARC-EP en La Habana
LA
PAZ ES UN DERECHO DE TODOS LOS COLOMBIANOS
Tribuna
Popular.-
El 26 de agosto de 2012, en La Habana, Cuba, las Fuerzas Armadas
Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo (FARC-EP) y el
Gobierno de Colombia suscribieron un histórico y esperanzador
“Acuerdo
general para la terminación del conflicto”.
El
18 de octubre de ese año dieron inicio “conversaciones directas e
ininterrumpidas sobre los puntos de la agenda”, que se han conocido
como los
diálogos de La Habana,
“con el fin de alcanzar un Acuerdo Final para la terminación del
conflicto que contribuya a la construcción de la paz estable y
duradera”.
Los
puntos de la agenda son: 1. Política de desarrollo agrario integral;
2. Participación política; 3. Fin del conflicto; 4. Solución al
problema de las drogas ilícitas; 5. Víctimas; e, 6. Implementación,
verificación y refrendación.
Distintos
retos se han tenido que superar en el objetivo de garantizar “la
efectividad del proceso y concluir el trabajo sobre los puntos de la
agenda de manera expedita y en el menor tiempo posible”, y, a pesar
de las visiones distintas de lo que significa “en el menor tiempo
posible”, se han alcanzado una serie de acuerdos en los primeros
dos puntos de agenda.
Las
más diversas organizaciones políticas y sociales, dentro y fuera de
Colombia, siguen y apoyan solidaria y activamente estos diálogos,
haciendo parte de las amplias, masivas y populares movilizaciones
para presionar al gobierno de Juan Manuel Santos para que asuma
seriamente la generación de condiciones y garantías para lograr un
acuerdo de paz sobre bases sólidas de democracia verdadera, justicia
social y soberanía.
Las
FARC-EP resaltan que sus banderas históricas “están en el primer
orden de la lucha política”, por lo que el gobierno sabe que
“nunca hemos estado ni estaremos en plan de rendición”, y que
“la única salida que queda es resolver los problemas que generaron
el conflicto”.
Patentizando
el compromiso con los diálogos de paz, una Comisión del Partido
Comunista de Venezuela (PCV), encabezada por su Secretario General,
Oscar Figuera, sostuvo reuniones en la capital cubana con la
Delegación de Paz de las FARC-EP, organización guerrillera que el
próximo 27 de mayo arribará a sus 50 años.
En
el marco de estas reuniones, Tribuna
Popular
realizó una entrevista exclusiva a Iván Márquez, Miembro del
Secretariado de las FARC-EP, y Jesús Santrich, del Estado Mayor
Central, que seguidamente reproducimos de manera íntegra:
TP:
El acuerdo general suscrito con el Gobierno colombiano se plantea la
“terminación
del conflicto”,
¿la toma del Poder político y la construcción del Socialismo son
aún los objetivos de las FARC-EP?
-
Lo que en la mesa estamos debatiendo son puntos de aproximación para
resolver lo esencial en cuanto a las causas de la miseria, la
desigualdad y la falta de democracia, recogiendo sobre todo las
iniciativas populares en este campo.
Tenemos
claro que no vamos a hacer la revolución en la mesa, pero tampoco se
trata de que el gobierno vaya a obtener una paz barata, sin cambios
en las injustas estructuras. Estos dependen de la acción organizada
de las masas; por ello lo que colocamos como material de discusión,
son propuestas mínimas, y no nuestro programa revolucionario hacia
el Socialismo, al cual no vamos a renunciar nunca.
TP:
¿Qué entienden ustedes por “terminación
del conflicto”?
-
El fin del conflicto tiene dos niveles precisos: uno es la
terminación de la confrontación militar propiamente dicha, y otro,
el fin de la confrontación social que se deriva de los profundos
problemas de orden político, económico y social que padecen las
mayorías.
Combinando
ambos factores, la terminación del conflicto significaría iniciar
un largo periodo de tregua bilateral que permita materializar los
compromisos concretos de cambio que se logren en la Mesa, pero
contando con la participación activa, protagónica del movimiento
popular.
Esto
seguramente tendrá que estar acompañado de un proceso constituyente
que reconfigure el ordenamiento político-social del país. En
Colombia se deben crear condiciones y garantías para la existencia
de una democracia real que posibilite la solución civilizada de las
expectativas de las comunidades.
TP:
Ha pasado un año y medio desde la firma del acuerdo general,
¿ustedes se mantienen optimistas con las posibilidades de lograr una
“paz
estable y duradera”?
-
Hemos alcanzado dos acuerdos parciales, muy importantes sobre
transformación agraria y participación política, y estamos a punto
de lograr algo similar respecto al tema de la sustitución de los
cultivos de uso ilícito que hace parte de un problema social mayor,
que es el narcotráfico, el cual ha tocado a todo el tejido social y
cruza el conjunto de la institucionalidad en Colombia.
Esto,
y el respaldo inmenso, que tanto a nivel nacional como internacional
tiene el proceso, nos dan el optimismo para mantenernos en la mesa de
diálogo.
TP:
¿En qué temas del diálogo hay mayores diferencias con el Gobierno?
¿Cuáles son los nudos que parecen más difíciles de superar?
-
Entre el primero y el segundo punto hemos acumulado 24 salvedades que
recogen temas respecto a los cuales hay el compromiso de
rediscutirlos y encontrarles salidas, porque en ellos están
elementos nodales, insalvables, sin los cuales no se podría cerrar
un acuerdo definitivo.
Estas
salvedades están publicadas en detalle en nuestros sitios de
difusión, pero podemos decirle que las primeras giran en torno a la
propiedad, tenencia y uso de la tierra, concretamente en la necesidad
de acabar con el latifundio, ponerle freno a la extranjerización de
la tierra, para alcanzar una verdadera redistribución que ponga fin
a ese escandaloso acaparamiento de tierra que existe en el campo.
En
este mismo plano se ubica el problema de los conflictos de uso dela
tierra que tienen que ver con la nefasta presencia del latifundio
ganadero que acumula casi 40 millones de hectáreas (un tercio del
territorio nacional) y con la peligrosa expansión minero-energética
que amenaza de manera seria el equilibrio ambiental y la
sostenibilidad de la economía. Anexo está la presencia rechazada de
los tratados de libre comercio, la pretensión de establecer el
llamado derecho real de superficie, entre otros elementos que apuntan
a un campo sin campesinos para abrirle espacio a los intereses de las
trasnacionales. En este punto, el reordenamiento territorial es de
interés fundamental.
Las
segundas salvedades se refieren al ejercicio de la democracia, a la
reestructuración institucional o del Estado, que de manera urgente
reclama Colombia en materia electoral, de justicia, de política
económica, de organismos de control, salud, educación, etc., pero
especialmente el aspecto de la Doctrina de la Seguridad Nacional,
incluyendo los cambios que requieren las normas de seguridad
ciudadana, que hoy han criminalizado de manera extrema la protesta
social.
No
vemos mayor dificultad en que lo mencionado se pueda resolver, porque
después de un avance como el que ya tenemos, se debe dar una mayor
participación de la ciudadanía, del soberano, y lo lógico es que
sea una Asamblea Nacional Constituyente, la que, luego de dirimir las
diferencias, nos dé un tratado de paz.
TP:
¿Por qué se realizan estos diálogos de paz fuera de Colombia? ¿Hay
participación real y efectiva del pueblo colombiano?
-
No siempre las FARC han dialogado en territorio colombiano; recuerde
que hubo diálogos en Caracas y luego en Tlaxcala, México. La
insistencia en que los diálogos se hicieran en Colombia obedecía a
que se lograra la mayor participación de las comunidades en la
definición de problemas que son de interés nacional. Pero la
intransigencia del gobierno a admitir que los diálogos se
desarrollaran en el país, podía frustrar una posibilidad de
reconciliación.
Por
esto decidimos no hacer de este tema un asunto de principios, sobre
todo cuando se logró convenir que se harían en el territorio
nacional, foros de discusión y se generarían mecanismos para que la
gente pudiera hacer presencia en La Habana. Hasta se nos llegó a
prometer vuelos chárter con compatriotas que quisieran participar,
lo cual, hasta el momento, no se ha concretado, y más bien se
amenazó con judicializar a quienes se trasladaran a Cuba a hablar
con la Delegación de Paz de la guerrilla.
Por
otro lado, la idea de que la sede fuera Cuba, país garante, con el
acompañamiento decidido de Venezuela, brindaba un carácter de
seguridad y absoluta confianza respecto al escenario de las
conversaciones. De verdad estamos totalmente satisfechos de que estos
diálogos de paz se escenifiquen en la isla de la libertad. Las FARC
están altamente agradecidas con Cuba, su gobierno y su pueblo, que
han acogido con absoluto respeto e imparcialidad a las partes.
Finalmente,
creemos que lo que concierne a la participación de la gente en la
construcción de acuerdos, ya no tendría como obstáculo la
geografía, sino la disposición que exista en el gobierno para
incluir las propuestas que las organizaciones sociales y políticas
del país han hecho llegar a la Mesa. Es necesario que la ciudadanía
conozca de los avances y salvedades para que pueda decidir frente a
las soluciones, de tal manera que lo que se acuerde, responda a los
anhelos de las mayorías que claman por cambios estructurales en
nuestro país.
TP:
¿Por qué fracasaron los diálogos anteriores? ¿Qué diferencias
hay con el proceso actual?
-
La Uribe [1984] fracasó porque, luego de firmado el acuerdo y del
surgimiento de la Unión Patriótica para hacer política en
condiciones de democracia, se produjeron incumplimientos, violaciones
a la tregua bilateral y una ola de asesinatos contra dirigentes y
militantes del nuevo movimiento, que se convirtió en el genocidio
político más grande de la historia reciente de América Latina.
Caracas
[1991] y Tlaxcala [1992] fracasaron porque en vez de resolver los
profundos problemas sociales que han generado la confrontación, el
gobierno decidió atender al consenso de Washington y darle curso a
la apertura económica neoliberal que profundizó las condiciones de
miseria y desigualdad en Colombia.
Como
lo confesó el propio presidente Pastrana en sus memorias del
proceso, el gobierno no buscaba la reconciliación en el Caguán
[1998-2002], sino ganar tiempo para la reingeniería del ejército.
Necesitaba frenar la dinámica de derrotas sucesivas de ese ejército
a manos de la guerrilla y eliminar cualquier expresión de
inconformidad relacionada con la profundización del neoliberalismo.
No había voluntad de paz en ese gobierno; de hecho, en pleno
desarrollo de los diálogos toleró masacres paramilitares contra la
población, y una vez los estrategas de Washington tuvieron listo el
Plan Colombia, con cualquier pretexto rompió los diálogos y
desencadenó la guerra.
A
pesar de todo esto, persistimos en encontrar salidas políticas,
porque la paz es nuestro propósito estratégico. Vemos que es
posible convenir fórmulas para solucionar problemas esenciales sobre
la tenencia y uso de la tierra, abrir las puertas a la participación
política ciudadana, y generar cambios estructurales que favorezcan a
las mayorías; por eso estamos en La Habana.
Si
se observa bien, lo común que ha operado como factor de obstrucción
y fracaso en los tres intentos de paz a través del diálogo, fue
pretender la desmovilización de la insurgencia sin cambios en las
injustas estructuras políticas, económicas y sociales.
La
diferencia radica en que el gobierno tiene una experiencia; sabe que
nunca hemos estado ni estaremos en plan de rendición, y eso le da
elementos suficientes para entender que la única salida que queda es
resolver los problemas que generaron el conflicto si se quiere
edificar la paz sobre bases sólidas.
TP:
El gobierno colombiano se ha negado a aceptar un cese al fuego
bilateral y ha persistido en su línea militarista ¿piensan ustedes
que tiene voluntad real de lograr acuerdos de paz?
-
El militarismo es uno de los elementos que habría que eliminar de
cualquier escenario de debate político. Cuando el gobierno resuelva
dejar atrás el aspecto ya mencionado de la Doctrina de Seguridad
Nacional, la concepción del enemigo interno y el paramilitarismo, es
decir, la guerra sucia, podríamos decir que ha pasado de la retórica
a la práctica en lo que concierne a una voluntad de paz cierta.
Entre
tanto nosotros, con las declaratorias de tregua unilateral y muchas
otras muestras de deseo de reconciliación, lo que hemos pretendido
es contribuir a crear el mejor ambiente para los acercamientos y
amainar para la población las duras consecuencias de la guerra.
Ojalá el gobierno en algún momento asuma la misma actitud y
abandone la vana idea que con presiones militares va a lograr
ventajas en la Mesa, pues aquí las ventajas no deben ser para
ninguna de las partes en particular, sino para el conjunto de la
sociedad.
TP:
¿Permitirá la oligarquía colombiana que avancen los esfuerzos de
paz y las garantías de participación política democrática?
-
La idea de dialogar es precisamente construir los espacios de
participación democrática. Esto no es fácil, porque más allá de
expresar disposición en el discurso, hay que expresarla en la
práctica, y sobre este último aspecto es que estamos llamando la
atención. Por eso hemos dicho que se requieren cambios fácticos que
trasciendan la retórica gubernamental.
Hasta
el momento los asesinatos no cesan, la persecución de los dirigentes
populares, los encarcelamientos y la criminalización de la protesta
social, tampoco, así que nuestro optimismo es moderado porque la
realidad, en la que con constancia asoman los dientes del
militarismo, llena el camino de incertidumbres.
Nunca
hemos olvidado que las élites colombianas, son unas élites
sanguinarias. Esperamos que la contraparte rectifique, y que factores
fascistas que atizan la guerra y la degradan, como el uribismo, se
terminen de ahogar en su propio fango.
TP:
El acuerdo suscrito establece que el Gobierno deberá combatir a las
organizaciones criminales, pero son conocidos sus nexos históricos
con el paramilitarismo ¿qué expectativas tienen de que cumpla este
punto?
-
Esto tiene que ver con el tema de la doctrina de Seguridad. Si ésta
no cambia es imposible que el paramilitarismo o la denominación que
le den, como la actual de bandas criminales (BACRIM), culmine. Si no
hay una decisión política tajante, sencillamente estaríamos
abocados a un nuevo fracaso, porque la guerra sucia se erigiría,
como lo prevé el Fiscal General de la Nación, Eduardo Montealegre,
en el principal obstáculo para la paz. Entonces este es un aspecto
que implica no solamente expectativas.
En
esto no podemos atenernos sólo a promesas, sino a hechos palpables.
La desactivación del paramilitarismo tiene que estar a la vista de
todos, y ello implica una depuración de la institucionalidad armada
que incluya la desmilitarización del Estado y de la sociedad.
TP:
¿Tienen previsto el tiempo que podrá tomar la firma del Acuerdo
Final?
-
A este empeño hay que dedicarle todo el tiempo que se requiera sin
ponerlo a depender de premuras electorales, legislativas o de
cualquier otro tipo. Es más, la paz debe ser una política de Estado
y no obedecer a intereses o caprichos de algún gobierno en
particular, pues esta es una confrontación que ya completa medio
siglo, y por eso mismo requiere de un análisis reposado de sus
causas y soluciones. De nuestra parte, trabajamos incansablemente
para que ello suceda en el menor tiempo posible.
TP:
Para fortalecer el proceso de paz, ¿qué papel debe jugar el
Congreso electo el pasado 9 de marzo?
-
El Congreso de la República recién elegido, con pocas excepciones,
es la reedición de una institución desprestigiada y corrupta con la
que desafortunadamente habrá que contar para hacer cualquier acuerdo
político en favor de la paz, pero no en cuanto a que es éste quien
va hacer las transformaciones que se necesitan, pues ahí no hay
autoridad ni voluntad para que esto sea posible.
No
obstante el mecanismo de refrendación para el proceso, debe contar,
si seguimos el camino de las formalidades, con el parlamento. Ya está
claro que no será a través del referendo [propuesto por Santos el
año pasado] que se pretendía imponer para realizarse en estas
elecciones. Ese intento definitivamente se hundió. Pero de todas
maneras hay que buscar una salida que concilie el sentir del gobierno
y el de las FARC, pero sobre todo que abra amplios espacios de
participación ciudadana.
Nuestra
propuesta es la Constituyente, pero esto es algo para debatirlo, para
hacerlo converger con lo que piensa el gobierno y cualquier otra
iniciativa que pueda darle protagonismo al soberano, porque en
definitiva es el pueblo quien debe sentar la última palabra.
TP:
El próximo 25 de mayo son las elecciones presidenciales en Colombia,
¿qué tanto depende de estas elecciones el proceso de paz?
-
Como dijimos hace un rato, la paz como propósito superior debiera
contar con una política de Estado y no depender de coyunturas
legislativas o electorales o de caprichos de partidos o gobiernos.
Todos los candidatos debieran estar comprometidos con el objetivo de
sacar adelante los diálogos.
Esperamos
que esto sea así, en el entendido que la paz no debe ser de derecha
ni de izquierda, para liberales, conservadores, verdes o comunistas;
la paz es un derecho de todos los colombianos. Y debe edificarse
sobre bases de democracia verdadera, justicia social y soberanía.
TP:
¿Ya han definido la figura o el tipo de organización con el que
actuarán políticamente en la vida civil? ¿Qué tácticas
–distintas a la lucha guerrillera– se proponen desarrollar?
-
El tránsito hacia formas de lucha que no requieran del uso de las
armas depende de los cambios fácticos que se logren en materia de
democracia y de redistribución de la riqueza; depende de que
Colombia retome su independencia y soberanía y el gobierno que se
establezca atienda los intereses populares.
Esto
no se dará de un día para otro, pero sí implica que debamos
experimentar, en medio de la tregua, de manera práctica, que el
compromiso del Estado con la paz, sea cierto. Para ello, sin duda,
tendremos que actuar con los instrumentos de la lucha política
abierta, en amplia convergencia con los sectores populares y
democráticos del país que hasta ahora el sistema mantiene en
situación de exclusión o marginalidad. En ese ejercicio, con
seguridad el nombre histórico de las FARC mantendrá su presencia.
TP:
¿La perspectiva real de lograr el fin del conflicto ha incidido en
la disposición combativa de la guerrillerada?
-
En la conciencia de los guerrilleros de las FARC lo que se inculca,
como constante, es que el propósito mayor de nuestra lucha es la paz
con justicia social y que las armas son solamente un instrumento para
lograrlo en unas circunstancias difíciles, de guerra sucia, de
cierre de los espacios de participación, de terrorismo de Estado y
asimetrías, pero las armas no son un fin en sí; lo más importante
son los propósitos por los que lucha nuestra gente, de tal manera
que hay preparación para actuar en cualquier campo, con armas o sin
armas. Recuérdese que las FARC son un ejército, pero ante todo, son
un Partido político revolucionario.
TP:
Tras 50 años de lucha, ¿el proyecto político de las FARC-EP sigue
vigente y con perspectivas de futuro?
-
El programa político de las FARC tiene absoluta vigencia, sobre todo
si consideramos que las causas que engendraron la confrontación, en
vez de resolverse, se han profundizado. Las razones para utilizar las
armas se mantienen y aspiramos que estos diálogos coloquen las bases
para convencernos de que a futuro ya no será necesario su uso, pero
las banderas que levantamos por la tierra y el territorio, por la
fundación de la democracia, el cambio de la política económica, la
defensa de la soberanía, etc., están en el primer orden de la lucha
política, porque son los anhelos principales de las mayorías.
Después
de 50 años de lucha, nunca antes habían tenido tantas posibilidades
de triunfo las banderas revolucionarias de las FARC.
TP:
¿Cómo garantizan las FARC-EP la continuidad político-militar en su
Dirección?
-
Esta es una organización político-militar bolivariana, con
estructura leninista de organización, que implica dirección
colectiva, acumulación ordenada de experiencias, permanencia de
escuelas de formación de cuadros, existencia de estructuras
centralizadas, una democracia interna fuerte, pero también con
importantes niveles de compartimentación que permiten la preparación
y la preservación de un componente humano de elevada moral, listo
para asumir las responsabilidades que correspondan independientemente
de que las circunstancias sean favorables o adversas.
La
conducción de las FARC no es unipersonal en ninguno de los niveles,
no se abrigan los caudillismos, y por eso en sus estructuras de
dirección se logra una preparación adecuada de la militancia. Eso
se proyecta hacia el conjunto de los combatientes, que además de
actuar en escuadras, guerrillas, compañías y columnas militares,
funcionan como células políticas que le dan vida a la existencia de
un Partido revolucionario que sobrepasa el componente estrictamente
militar.
TP:
¿Cómo se conjugan el ideario bolivariano y la concepción
marxista-leninista en las filas de las FARC-EP?
-
Como marxistas y leninistas tenemos una formación que nos da
convencimiento de la
posibilidad real de lograr un mundo mejor.
Creemos en la necesidad de superar el capitalismo como modo de
producción, actualmente en crisis sistémica y decadencia, que está
poniendo en riesgo la existencia misma del planeta.
Y
tenemos la certeza de que la alternativa está en el Socialismo como
formación económica-social que acabe con la mercantilización de la
existencia, con su cosificación y ponga en primer plano de sus
preocupaciones al ser humano en armonía con sus congéneres y la
naturaleza.
Este
tipo de pensamiento coincide plenamente con lo que enseña el ideario
del Libertador en el plano de la solidaridad humana, el sentido de
patria y la sumatoria de felicidad.
La
convergencia de estos dos pensamientos nos da el rumbo de lo que debe
ser la unidad de Nuestra América en función de un nuevo orden
social que beneficie a las mayorías, sobre todo a los oprimidos; por
eso nuestra consigna de Patria Grande y Socialismo, en el mejor
sentido bolivariano y marxista que puedan tener estas categorías.