venerdì 25 aprile 2014

Dieci cose scioccanti che si devono sapere sugli Stati Uniti


                            Antonio Santos

1. Gli Stati Uniti hanno la maggiore popolazione carceraria del mondo 

rappresentando meno del 5% dell'umanità e più del 25% dell'umanità prigioniera. Su 100 americani uno è prigioniero. Con una crescita vertiginosa dagli anni 80, il surreale tasso delle carcerazioni negli USA è un affare e uno strumento di controllo sociale: nella misura in cui l'affare delle prigioni si espande, una nuova categoria di milionari consolida il suo potere politico. I regali di queste carceri sono anche i regali degli schiavi che lavorano in fabbriche all'interno delle prigioni per salari inferiori ai 50 centesimi all'ora. Una manodopera così competitiva che molti municipi oggi sopravvivono finanziariamente con le loro prigioni e grazie a leggi che comminano sentenze fino a 15 anni di prigione per crimini come rubare gomme. Gli obiettivi di tali leggi sono sempre i più poveri, ma soprattutto i neri, che pur rappresentando solo il 13% della popolazione americana, costituiscono il 40% della popolazione carceraria del paese.
 

2. Il 22% dei bambini americani vive sotto il limite della povertà. 

Si calcola che circa 16 milioni di bambini americani vivano senza "sicurezza alimentare", famiglie senza la capacità economica di soddisfare i requisiti nutrizionali minimi di una dieta salutare. Le statistiche provano che questi bambini hanno i peggiori risultati scolastici, accettano i peggiori impieghi, non frequentano l'università e hanno la maggiore probabilità di essere prigionieri, quando diventeranno adulti.
 
3. Tra il 1890 e il 2014 gli USA hanno invaso e bombardato 150 paesi.
 
Sono più i paesi del mondo in cui gli USA sono intervenuti militarmente di quelli in cui ancora non
l'hanno fatto. Numerosi storici calcolano in più di otto milioni le morti causate dalle guerre imperiali degli USA solo nel secolo XX. E dietro questa lista si nascondono centinaia di altre operazioni segrete, colpi di stato e protezioni a dittatori e gruppi terroristi. Secondo Obama, insignito del Nobel della Pace, gli USA conducono in questo momento più di 70 operazioni segrete in diversi paesi del mondo. Lo stesso presidente ha creato il maggiore bilancio militare di qualsiasi paese del mondo dalla Seconda Guerra Mondiale, distanziando George Bush.


 
4. Gli USA sono l'unico paese dell'OCSE senza diritto a qualsiasi tipo di sussidio alla maternità.
 
Sebbene i numeri varino a seconda dello Stato e dipendano dai contratti redatti dall'impresa, è pratica corrente che le donne americane non abbiano diritto a nessun giorno pagato né prima né dopo aver dato alla luce. In molti casi, non esiste alcuna possibilità di essere pagate. Quasi tutti i paesi del mondo prevedono tra le 12 e le 50 settimane pagate di licenza di maternità. Gli Stati Uniti fanno compagnia a Papua Nuova Guinea e allo Swaziland con zero settimane.
 
5. 125 americani muoiono ogni giorno per non non poter pagare l'accesso alla sanità.
 
Chi non possiede assicurazione sanitaria (e 50 milioni di americani non la possiedono) ha delle buone ragioni per temere di più l'ambulanza che un innocente attacco cardiaco. Con viaggi dell'ambulanza che costano in media 500 euro, la degenza in un ospedale pubblico più di 200 euro a notte e la maggior parte delle operazioni chirurgiche che ne costano decine di migliaia, è bene che ci si possa permettere un'assicurazione sanitaria privata.
 
6. Gli USA sono stati fondati sul genocidio di 10 milioni di nativi. 

Solo tra il 1940 e il 1980, il 40% di tutte le donne nelle riserve indiane sono state sterilizzate contro la loro volontà dal governo.
Si dimentichi la storia del Giorno del Ringraziamento, con indiani e coloni a dividere pacificamente un tacchino. La storia degli Stati Uniti inizia nel programma di sradicamento degli indiani: per due secoli, i nativi sono stati perseguitati e assassinati, spogliati di tutto e rinchiusi in minuscole riserve di terre infertili, in discariche di rifiuti nucleari e e su terreni contaminati. In pieno secolo XX, gli USA hanno messo in marcia un piano di sterilizzazione forzata delle donne native, chiedendo loro di firmare formulari scritti in una lingua che non comprendevano, minacciandole del taglio dei sussidi o, semplicemente, impedendo loro l'accesso ai servizi sanitari.
 
7. Ogni immigrato è obbligato a giurare di non essere comunista per poter vivere negli USA.
 
Oltre a dover giurare che non è un agente segreto né un criminale di guerra nazista, gli si chiede se in passato è stato membro del "Partito Comunista", o se difende intellettualmente qualche organizzazione considerata "terrorista". Se risponderà si a una qualsiasi di queste domande, gli potrebbe essere negato il diritto di vivere e lavorare negli USA per aver dato "prova di debolezza di carattere morale".
 
8. Il prezzo medio di una laurea in un'università pubblica è 80.000 dollari.
 
L'Insegnamento Superiore è un'autentica miniera d'oro per i banchieri. Praticamente tutti gli studenti hanno debiti astronomici, maggiorati di interessi, che richiedono in media 15 anni per essere saldati. In questo periodo, gli alunni diventano schiavi delle banche e dei debiti, essendo spesso costretti a contrarre nuovi prestiti per pagare quelli vecchi. Tra il 1999 e il 2014, il debito totale degli studenti Usa ha raggiunto 1,5 trilioni di dollari, con un aumento vertiginoso del 500%.
 
9. Gli USA sono il paese del mondo con più armi: su 10 americani, si contano nove armi da fuoco. 

 Non stupisce il fatto che gli Stati Uniti occupino il
primo posto nella lista dei paesi con il più grande numero di armi. Ciò che sorprende è il paragone con il resto del mondo: nel resto del pianeta c'è un arma ogni 10 persone. Negli Stati Uniti, nove ogni 10. Negli USA si trova il 5% di tutta l'umanità e il 30% di tutte le armi, qualcosa come 275 milioni.
 
10. Sono più gli americani che credono nel Diavolo di quelli che credono in Darwin. 

La maggioranza degli americani è scettica, almeno per quanto riguarda la teoria dell'evoluzione, a cui crede solo il 40% della popolazione. Mentre l'esistenza di Satana e dell'inferno risulta perfettamente plausibile per oltre il 60% degli americani. Questo radicalismo religioso spiega le "conversazioni quotidiane" di Bush con Dio e anche le diatribe infinite sulla natura teologica della fede di Obama.


Tratto da


Immagini da internet inserite da amministratore Blog

domenica 20 aprile 2014

ACCIAIERIE PIOMBINO : le ragioni di Paolo Francini in sciopero della fame contro la chiusura dell' altoforno Lucchini.



Subito dopo Pasqua l'altoforno verrà spento: questa storia lunga più di 100 anni si fermerà qui. Con essa si fermerà il futuro di migliaia di famiglie di questo territorio. Gli ammortizzatori sociali concessi serviranno solo a non far precipitare i lavoratori nella disperazione più nera. Ma non costituiranno certo il futuro a cui aggrapparsi, che è fatto solo di incognite e interrogativi.
L'unica cosa certa è che da oggi cambia la storia di Piombino e di un intero pezzo della Toscana.
Eppure, a detta dello stesso governo le Acciaierie di Piombino sono “Strategiche” per gli interessi del nostro Paese. Belle parole, ma intanto il Governo stesso decide di non intervenire per prolungare la vita dell'altoforno. In questo modo si condannano i lavoratori ad un salto nel vuoto senza nessuna sicurezza. La storia non può, non deve finire così. Occorre costringere il governo a farsi davvero carico della vicenda Lucchini, se necessario anche con la riaquisizione pubblica dello stabilimento. Lo Stato, cioè, deve tornare a fare lo Stato, creando occupazione e garantendo l'esistenza dei settori fondamentali come quello della siderurgia. Per questo, il giorno della fermata dell' AFO non potrà essere vissuto come un giorno qualsiasi, tutto il territorio dovrà essere mobilitato con iniziative clamorose. Lo stesso dovrà avvenire nei 20/30 giorni successivi, in cui l' AFO “caricato in bianco” potrà comunque essere messo in condizioni di ripartire.
Alcune settimane di iniziative intense e clamorose da parte dei sindacati, Lavoratori ,cittadini, per dire che la mano pubblica deve assicurare la vita dell'AFO e la sua prosecuzione fel futuro. Non dobbiamo, non possiamo arrenderci. Ho 54 anni, dal 1980 lavoro in quello stabilimento, adesso non me la sento di trascorrere il periodo di Pasqua a casa, tra “colombe” e “scampagnate”, come se nulla stesse accadendo. Ho deciso quindi di trascorrere questi giorni davanti alla portineria della Lucchini, dalle 8 del giorno di Pasqua fino alle 8 di martedi 22 aprile, in modo ininterrotto, facendo lo sciopero della fame. Questo come forma di protesta contro il Governo, ma anche per dire a me stesso, ai mie colleghi di lavoro e ai sindacati che non è giunto il momento di alzare bandiera bianca, ma quella della mobilitazione e della lotta. La nostra volontà deve essere più forte della decisione politica di uccidere le nostre speranze.

  PAOLO FRANCINI
Castagneto Carducci 19 /aprile 2014



Foto inserite da amministratore blog



venerdì 18 aprile 2014

"Per i Cinque ci metto la faccia" Il Coord.to alta Maremma collabora alla iniziativa partita dalla rete Lombarda amica di Cuba.



Il coordinamento alta Maremma libertà per i 


Cinque eroi cubani che ha aderito all'iniziativa 

promossa dalla rete Lombarda di solidarietà con Cuba 

 “Per i cinque ci metto la faccia” ha già 

tutto pronto per

scattare e inviare le foto, faremo postazioni fisse 

il 21 e 25 aprile e 1° maggio, dove oltre alle foto 

distribuiremo volantini informativi sul caso dei 

Cinque.



Dal web di amici di Cuba della Lombardia:



PER I CINQUE CI METTO LA FACCIA !




promuovono per il 5 MAGGIO 2014 una

MOBILITAZIONE ON-LINE
 per denunciare il caso

 dei cinque patrioti cubani condannati negli USA 

per aver combattuto il terrorismo contro il loro

paese e chiedere la liberazione di Antonio, 

Gerardo e Ramòn, ancora detenuti.

Scatta una tua fotografia con un cartello che 

chiede la liberazione di Antonio, Gerardo

Ramòn.

2) Invia subito le foto a lombardiacuba@yahoo.it : la pubblicheremo sui nostri siti la faremo circolare in rete ne verrà fatto un video con tutte le nostre facce da inviare ai tre cubani ancora detenuti.
 
3) A partire dalle 00.00 del 5 maggio metti la tua foto sul social network che utilizzi abitualmente (facebook, twitter,ecc)..e condividila


Il Coordinamento Alta Maremma Libertà per i Cinque sostiene la campagna  :

 "Per i cinque ci metto la faccia !"

Il circolo di Como di Italia - Cuba, il circolo di Bergamo di Italia - Cuba e l'Associazione Svizzera - Cuba del Ticino sostengono la campagna "Per i cinque ci metto la faccia !"

Iniziata il 5 aprile, ad Arbedo (Canton Ticino), durante la festa per Cuba organizzata dall'Associazione Svizzera - Cuba, la campagna "Per i cinque ci metto la faccia". Decine di partecipanti alla festa "ci hanno messo la faccia" e le loro fotografie sono già pronte per la mobilitazione on-line del 5 maggio.

Il Coordinamento alta Maremma ha preparato un volantino da diffondere durante l'iniziativa : 



Non si può essere paladini della giustizia quando si proteggono i terroristi. Basta ipocrisie e giustificazioni. E' chiaro!! Gli Stati Uniti proteggono il loro terrorismo.



PER LIBERTA' DI GERARDO, ANTONIO, RAMON

ADERISCI A :


PER I CINQUE CI METTO LA FACCIA !



Gerardo Hernandez, Ramon Labañino, Antonio Guerrero, si trovano in tre diversi carceri di massima sicurezza degli Stati Uniti ormai da oltre 15 anni. Renè Gonzalez, scontata la pena, dopo aver rinunciato alla cittadinanza USA è tornato libero e adesso è impegnato per la liberazione dei suoi fratelli ancora ingiustamente detenuti nelle carceri dell'Impero. Lo stesso vale per Fernando Gonzalez liberato il 27 febbraio 2014.

La loro unica colpa è di aver consegnato alla FBI i piani terroristici contro Cuba, preparati da organizzazioni controrivoluzionarie presenti a Miami in Florida, organizzazioni che già un passato con la complicità della intelligence USA e non solo, hanno causato 3478 morti e migliaia di feriti.

La unica azione intrapresa dal governo USA contro i gruppi terroristici denunciati è stata quella di arrestare gli accusatori e sottoporli ad un processo farsa (oggi tutti sanno che molti giornalisti e media furono pagati per creare un ambiente a loro ostile) con condanne pesantissime che vanno da 15 anni a un doppio ergastolo. Mentre il terrorista Posada Carriles, responsabile reo confesso di attentati compresa la morte dell’italiano Fabio Di Celmo, vive indisturbato e osannato negli USA.

La scandalosa Corte Suprema degli Stati Uniti a distanza di anni continuando nella tradizione giuridica che risale ai processi di Sacco e Vanzetti, dei Rosemberg, di Charlie Chaplin, ha incredibilmente negato ai Cinque la riapertura del processo nonostante le richieste del collegio di difesa, appoggiato da migliaia di giuristi internazionali e da dieci Premi Nobel.



Ciclo proprio 2014 - Coordinamento alta Maremma per la libertà dei 5



giovedì 17 aprile 2014

Intervista esclusiva alla Delegazione di Pace delle FARC-EP a L'Avana - Entrevista exclusiva a la Delegación de Paz de las FARC-EP en La Habana



   La pace è un diritto di tutti i   colombiani

12/04/2014

Il 26 Agosto 2012, a L'Avana, Cuba, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia - Esercito del Popolo (FARC - EP) e il governo della Colombia hanno firmato uno storico e speranzoso "
Accordo generale per la fine del conflitto".

Il 18 ottobre di quell'anno diedero inizio alle "conversazioni dirette e ininterrotte sui punti dell'agenda", conosciuti come i dialoghi de L'Avana, "
al fine di raggiungere un Accordo Finale per la risoluzione del conflitto che contribuisce alla costruzione di una pace stabile e duratura".

I punti dell'agenda sono: 1) Politica di sviluppo agrario integrale; 2) Partecipazione politica; 3) Fine del conflitto; 4) Soluzione al problema delle droghe illecite; 5) Vittime; 6) Attuazione, verifica e controfirma.

Diverse sfide si devono superare nell'obiettivo di garantire "l'efficacia del processo e completare il lavoro sui punti dell'agenda in maniera spedita e nel più breve tempo possibile" e, nonostante le diverse visioni di ciò che significa "nel più breve tempo possibile", sono stati raggiunti una serie d'accordi nei primi due punti dell'agenda.

Le più diverse organizzazioni politiche e sociali, dentro e fuori la Colombia, seguono e sostengono in modo solidale e attivo questi dialoghi, essendo parte delle ampie, massicce e popolari mobilitazioni per fare pressione al governo di Juan Manuel Santos perché assuma seriamente la generazione di condizioni e garanzie per raggiungere un accordo di pace su una solida base di vera democrazia, giustizia sociale e sovranità.

Le FARC-EP evidenziano che le loro bandiere storiche "sono in primo ordine della lotta politica", in modo che il governo sappia che "non siamo né staremo in piani di resa", e che "l'unica via d'uscita è quella di risolvere i problemi che hanno generato il conflitto".

Assumendo l'impegno con i colloqui di pace, una Commissione del Partito Comunista del Venezuela (PCV), guidata dal suo Segretario Generale, Oscar Figuera, ha tenuto riunioni nella capitale cubana con la Delegazione di Pace delle FARC-EP, organizzazione guerrigliera che il prossimo 27 maggio arriverà ai suoi 50 anni.

Nel quadro di queste riunioni,
Tribuna Popolar ha realizzato una intervista esclusiva con Iván Márquez, membro della Segreteria delle FARC-EP e Jesús Santrich, dello Stato Maggiore Centrale, che riproduciamo integralmente di seguito:
TP: L'accordo generale sottoscritto con il Governo colombiano si pone l'obiettivo di "porre fine al conflitto", la conquista del Potere politico e la costruzione del Socialismo sono ancora gli obiettivi delle FARC-EP?

- Ciò che stiamo discutendo sono punti di approccio per risolvere essenzialmente le cause della miseria, della disuguaglianza e della mancanza di democrazia, raccogliendo in particolare le iniziative popolari in questo campo.

Siamo consapevoli che al tavolo non andiamo a fare la rivoluzione, ma nemmeno si tratta che il governo ottenga una pace conveniente senza cambiamento nelle ingiuste strutture. Questo dipende dall'azione organizzata delle masse; è per questo che quelle che stiamo discutendo sono le proposte minime e non il nostro programma rivoluzionario fino al Socialismo, al quale non rinunceremo mai.
TP: Che cosa intendete per "fine del conflitto"?

- La fine del conflitto ha due livelli specifici: uno è la fine dello scontro militare propriamente detto e l'altro, la fine dello scontro sociale che deriva dai profondi problemi d'ordine politico, economico e sociale che patisce la maggioranza.

Combinando i due fattori, la fine del conflitto significherà l'inizio di un lungo periodo di tregua bilaterale che permetta di materializzare gli impegni concreti di cambiamento che si raggiungeranno al tavolo, ma con la partecipazione attiva, protagonista del movimento popolare.

Ciò sarà sicuramente accompagnato da un processo costituente per riconfigurare l'ordinamento politico e sociale del paese. In Colombia si devono creare le condizioni e le garanzie per l'esistenza di una democrazia reale che permetta la soluzione civile delle aspettative delle comunità.
TP: E' passato un anno e mezzo dalla firma dell'accordo generale, rimanete ottimisti circa le possibilità di raggiungere una "pace stabile e duratura"?

- Abbiamo raggiunto due accordi parziali, molto importanti sulla trasformazione agraria e sulla partecipazione politica e siamo in procinto di realizzare qualcosa di simile sulla questione della sostituzione delle coltivazioni illecite che è parte di un problema sociale maggiore rappresentato dal narcotraffico, che tocca l'intero tessuto sociale e attraversa l'insieme delle istituzioni in Colombia.

Questo ed il grande sostegno sia a livello nazionale che internazionale, che ha il processo, ci danno l'ottimismo per restare al tavolo del dialogo.
TP: In quali temi del dialogo vi sono grandi differenze con il Governo? Quali sono i nodi che sembrano più difficili da superare?

- Tra il primo e il secondo punto abbiamo accumulato 24 titoli che raccolgono temi rispetto ai quali vi è l'impegno a ridiscutere e trovare soluzioni, perché sono elementi nodali, insormontabili, senza i quali non si potrà concludere un accordo definitivo.

Essi sono pubblicati in dettaglio nei nostri siti di diffusione, ma possiamo dirvi che i primi ruotano attorno la proprietà, possesso ed uso della terra, concretamente sulla necessità di porre fine al latifondo, arginare la proprietà straniera della terra per realizzare una vera e propria redistribuzione, che ponga fine a questo scandaloso accaparramento della terra che esiste nel settore.

Su questo stesso piano si pone il problema dei conflitti d'uso della terra, che hanno a che fare con la nefasta presenza degli allevamenti di bestiame e che riguarda quasi 40 milioni di ettari (un terzo del territorio nazionale) e la pericolosa espansione delle miniere energetiche che minaccia pericolosamente l'equilibrio ambientale e la sostenibilità dell'economia. Annessa vi è la presenza rifiutata dei trattati di libero scambio, al fine di stabilire il cosiddetto diritto reale di superficie, tra gli altri elementi che mirano ad una campagna senza contadini per fare spazio agli interessi delle multinazionali. Su questo punto, il riordinamento territoriale è di interesse fondamentale.

I secondi riguardano l'esercizio della democrazia, la ristrutturazione istituzionale e dello Stato, che con urgenza reclama la Colombia in materia elettorale, giustizia, politica economica, organismi di controllo, salute, istruzione, ecc., ma soprattutto l'aspetto della Dottrina della Sicurezza Nazionale, in particolar modo le modifiche che richiedono le norme di sicurezza cittadina, che oggi criminalizzano in modo estremo la protesta sociale.

Non vediamo alcuna difficoltà che tutto quello menzionato possa essere risolto, perché dopo un progresso come quello già raggiunto, si deve dare una maggiore partecipazione della cittadinanza, della sovranità ed è logico che sia una Assemblea Nazionale Costituente che, dopo aver risolto le differenze, ci dia un trattato di pace.
TP: Perché questi colloqui di pace si tengono fuori dalla Colombia? Vi è la partecipazione reale ed effettiva del popolo colombiano?

- Non sempre le FARC hanno dialogato in territorio colombiano; ci sono stati colloqui a Caracas e poi a Tlaxcala, Messico. L'insistenza che i colloqui si facessero in Colombia era per avere una maggiore partecipazione della comunità nel definire i problemi che sono di interesse nazionale. Ma l'intransigenza del governo ad ammettere che i dialoghi si sviluppassero nel paese, potrebbe vanificare la possibilità della riconciliazione.

Per questo abbiamo deciso di non rendere questo tema una questione di principio, soprattutto quando siamo riusciti a concordare il fatto che sarebbero stati realizzati sul territorio nazionale forum di discussione e meccanismi per far sì che la gente potesse presenziare a L'Avana, fino alla promessa di voli charter per i connazionali che volevano partecipare; promessa che, finora, non si è materializzata e piuttosto si è minacciato di perseguire coloro che si spostavano a Cuba per parlare con la Delegazione di Pace della guerriglia.

D'altra parte, l'idea che la sede fosse Cuba, paese garante, con il forte sostegno del Venezuela, ha fornito un carattere di sicurezza e di fiducia assoluta nella fase dei colloqui. Siamo pienamente soddisfatti che questi colloqui di pace si svolgono nell'Isola della libertà. Le FARC sono molto grate a Cuba, al suo governo e al suo popolo, che hanno accolto con rispetto e imparzialità le parti.

Infine, riteniamo che per quanto riguarda la partecipazione delle persone alla costruzione degli accordi, l'ostacolo non è la geografia, ma la disposizione che esiste nel governo a includere le proposte che le organizzazioni sociali e politiche del paese hanno trasmesso al tavolo. E' necessario che i cittadini conoscano i progressi e le questioni in cui non c'è accordo, in modo da poter decidere sulle soluzioni; in questo modo ciò su cui ci si accorda risponde alle aspirazioni della maggioranza che vuole cambiamenti strutturali nel nostro paese.
TP: Perché sono falliti i dialoghi precedenti? Quali sono le differenze con il processo in corso?

- Uribe [1984] fallì perché, dopo la firma dell'accordo e dell'emergere dell'Unione Patriottica per far politica in condizioni di democrazia, ci furono incompiutezze, violazioni al cessate il fuoco bilaterale ed una ondata di assassini contro dirigenti e militanti del nuovo movimento che divenne il più grande genocidio politico della storia recente dell'America Latina.

Caracas [1991] e Tlaxcala [1992] fallirono perché invece di risolvere i profondi problemi sociali che hanno generato lo scontro, il governo decise di soddisfare l'accordo di Washington e dare corso all'apertura economica neoliberale che approfondì le condizioni di miseria e disuguaglianza in Colombia.

Come lo stesso presidente Pastrana ha confessato nelle sue memorie del processo, il governo non ha cercato la riconciliazione a Caguan [1998-2002], ma cercava di guadagnare tempo per riprogettare l'esercito. Necessitava di frenare la dinamica di sconfitte successive di quell'esercito per mano della guerriglia ed eliminare ogni espressione di insoddisfazione relativa all'approfondimento del neoliberismo. Non c'era alcun desiderio di pace in quel governo; infatti, in pieno sviluppo dei dialoghi, tollerò massacri paramilitari contro la popolazione e una volta che gli strateghi di Washington avevano pronto il Plan Colombia, con un qualsiasi pretesto ruppe il dialogo e scatenò la guerra.

Nonostante tutto questo, abbiamo persistito nella ricerca di soluzioni politiche, perché la pace è il nostro proposito strategico. Vediamo che è possibile avere formule per risolvere i problemi essenziali sulla proprietà e l'utilizzo della terra, aprire le porte alla partecipazione politica dei cittadini e generare cambiamenti strutturali che favoriscano la maggioranza sociale; per questo siamo a L'Avana.

Se si osserva bene, il fattore comune di blocco e fallimento nei tre tentativi di pace attraverso il dialogo, è stato pretendere la smobilitazione dell'insurgencia senza cambiamenti nelle ingiuste strutture politiche, economiche e sociali.

La differenza sta nel fatto che il governo ha un'esperienza; sa che non siamo mai stati e mai saremo per i piani di resa e ciò gli dà abbastanza elementi per capire che l'unica via d'uscita è quella di risolvere i problemi che hanno causato il conflitto, se si vuole costruire la pace su solide fondamenta.
TP: Il governo colombiano ha negato di accettare un cessate il fuoco bilaterale e ha persistito nella sua linea militarista, pensate che abbia reale volontà di raggiungere accordi di pace?

- Il militarismo è uno degli elementi da rimuovere da qualsiasi scenario di dibattito politico. Quando il governo deciderà di lasciarsi alle spalle l'aspetto già citato della Dottrina di Sicurezza Nazionale, la concezione del nemico interno e il paramilitarismo, vale a dire, della guerra sporca, potremmo dire che si è passati dalla retorica alla pratica, per quanto concerne una volontà di pace certa.

Nel frattempo noi, con le dichiarazioni di tregua unilaterale e molti altri segnali di volontà di riconciliazione, abbiamo cercato di contribuire a creare l'ambiente migliore per approcciare ed alleviare la popolazione dalle dure conseguenze della guerra. Speriamo che a un certo punto il governo assuma lo stesso atteggiamento e abbandoni l'idea vana che con la pressione militare raggiungerà vantaggi al Tavolo, perché qui i vantaggi non devono essere per nessuna delle parti in particolare, ma per l'intera società.
TP: Permetterà l'oligarchia colombiana che avanzino gli sforzi di pace e le garanzie di partecipazione politica democratica?

- L'idea del dialogo è precisamente costruire gli spazi di partecipazione democratica. Questo non è facile, perché al di là di esprimere la disponibilità a parole, bisogna esprimerla nella pratica ed è questo ultimo aspetto su cui noi richiamiamo attenzione. Per questo abbiamo detto che sono obbligatori cambiamenti di fatto, che trascendono dalla retorica del governo.

Finora gli assassini non si sono fermati, la persecuzione dei dirigenti popolari, l'incarcerazione e la criminalizzazione della protesta sociale, nemmeno, quindi il nostro ottimismo è moderato perché la realtà nella quale costantemente appaiono i denti del militarismo, riempie il cammino d'incertezze.

Non abbiamo mai dimenticato che le élites colombiane, sono élite sanguinarie. Ci auguriamo che la controparte rettifichi e che i fattori fascisti che alimentano la guerra e la degradano, come l'uribismo, affoghino nel loro fango.
TP: L'accordo sottoscritto stabilisce che il Governo dovrebbe combattere le organizzazioni criminali, ma sono noti i suoi legami storici con il paramilitarismo, che aspettative avete che si compia questo punto?

- Questo ha a che fare con la questione della dottrina di Sicurezza. Se questa non cambia è impossibile che il paramilitarismo o il nome che gli danno, come l'attuale di bande criminali (BACRIM), finisca. Se non c'è una decisione politica tagliente, saremo semplicemente condannati ad un altro fallimento, perché la guerra sporca si erigerà, come previsto dal Procuratore Generale della Nazione, Eduardo Montealegre, nel principale ostacolo alla pace. Quindi questo è un aspetto che implica non solo aspettative.

In questo non possiamo fare affidamento solo a promesse, ma a fatti palpabili. La disattivazione del paramilitarismo deve essere visibile a tutti e questo implica una depurazione delle istituzione armata compresa la smilitarizzazione dello Stato e della società.
TP: Avete previsto il tempo in cui potrà avvenire la firma dell'Accordo Finale?

- In questo impegno dobbiamo spendere tutto il tempo necessario senza dipendere da premure elettorali, legislative o di qualsiasi altro tipo. Inoltre, la pace deve essere una politica di Stato e non ubbidire agli interessi o capricci di alcun governo in particolare, perché questo è un confronto che già compie mezzo secolo e quindi richiede un'analisi riposante delle sue cause e soluzioni. Da parte nostra, lavoriamo instancabilmente perché si realizzi nel più breve tempo possibile.
TP: Per rafforzare il processo di pace, che ruolo deve avere il Congresso eletto lo scorso 9 marzo?

- Il Congresso della Repubblica recentemente eletto, con poche eccezioni, è la riedizione di una istituzione screditata e corrotta con la quale, purtroppo, si avrà a che fare per realizzare qualsiasi accordo politico a favore della pace, ma non per realizzare le trasformazioni che sono necessarie, perché qui non vi è alcuna autorità né volontà per rendere questo possibile.

Tuttavia il meccanismo di controfirma per il processo, deve contare, se seguiamo la via delle formalità, sul parlamento. E' già chiaro che non sarà attraverso il referendum [proposto da Santos lo scorso anno] che si mirava ad imporre per realizzarlo in queste elezioni. Quel tentativo definitivamente si è affondato. Ma ancora si deve trovare una soluzione che concili il senso del governo e delle FARC, ma soprattutto che apra ampi spazi di partecipazione dei cittadini.

La nostra proposta è la Costituente, ma questo è qualcosa da discutere, per farlo convergere con quello che pensa il governo e qualsiasi altra iniziativa che possa dare protagonismo alla sovranità, perché in definitiva è il popolo che deve avere l'ultima parola.
TP: Il prossimo 25 maggio vi sono le elezioni presidenziali in Colombia, quanto dipende da queste elezioni il processo di pace?

- Come abbiamo detto poco fa, la pace come proposito superiore dovrà contare su una politica statale e non fare affidamento su congiunture legislative o elettorali o capricci di partiti o governi. Tutti i candidati dovranno essere impegnati con l'obiettivo di portare avanti i dialoghi.

Ci auguriamo che questo sia proprio così, con la consapevolezza che la pace non deve essere di destra o di sinistra, per liberali, conservatori, verdi o comunisti; la pace è un diritto per tutti i colombiani. E deve essere costruita sulle basi della vera democrazia, la giustizia sociale e la sovranità.
TP: Già è definita la figura o il tipo di organizzazione con il quale si agirà politicamente nella vita civile? Quali tattiche - differenti alla lotta guerrigliera - si propongono di sviluppare?

- La transizione verso forme di lotta che non richiedono l'uso delle armi dipende dai cambiamenti di fatto che saranno raggiunti in materia di democrazia e redistribuzione della ricchezza; dipende se la Colombia riprende la sua indipendenza e sovranità e se il governo che si stabilisce attende agli interessi popolari.

Questo non accadrà da un giorno all'altro, ma implica che dobbiamo sperimentare, in mezzo alla tregua, nella pratica, che l'impegno dello Stato verso la pace, è vero. Per questo, senza dubbio, si agirà con gli strumenti della lotta politica aperta, in un'ampia convergenza con i settori popolari e democratici del paese che finora il sistema mantiene in una situazione di esclusione o emarginazione. In questo esercizio, sicuramente il nome storico delle FARC manterrà la sua presenza.
TP: La prospettiva reale di porre fine al conflitto ha inciso nella disposizione al combattimento della guerriglia?

- Nella coscienza dei guerriglieri delle FARC quello che si inculca, come costante, è che il proposito maggiore della nostra lotta è la pace con giustizia sociale e che le armi sono solo uno strumento per raggiungerla in circostanze difficili, di guerra sporca, di chiusura degli spazi di partecipazione, di terrorismo di Stato e asimmetrie, ma le armi non sono un fine in sé; la cosa più importante sono le finalità per cui lotta la nostra gente, in modo che sia preparata ad agire in qualsiasi campo, con le armi o senza armi. Ricordiamo che le FARC sono un esercito, ma soprattutto, sono un Partito politico rivoluzionario.
TP: Dopo 50 anni di lotta, il progetto politico delle FARC-EP continua ad essere valido e con prospettive di futuro?

- Il programma politico delle FARC è assolutamente valido, soprattutto considerando che le cause che generarono il confronto, piuttosto che risolversi, si sono approfondite. Le ragioni per l'utilizzo delle armi si mantengono e speriamo che questi dialoghi pongano le basi per convincerci che in futuro non sarà più necessario il loro utilizzo, ma le bandiere che solleviamo per la terra e il territorio, per la fondazione della democrazia, il cambiamento della politica economica, la difesa della sovranità, ecc., sono in primo ordine della lotta politica, perché sono le principali aspirazioni della maggioranza.

Dopo 50 anni di lotta, non hanno mai avuto così tante possibilità di trionfo le bandiere rivoluzionarie delle FARC.
TP: Come si garantisce la continuità politico-militare delle FARC-EP nella sua direzione?

- Questa è un organizzazione politico-militare bolivariana, con struttura organizzativa leninista, che implica la direzione collettiva, l'accumulazione ordinata delle esperienze, la permanenza di scuole di formazione quadri, l'esistenza di strutture centralizzate, una forte democrazia interna, ma anche con significativi livelli di partizionamento che consentono la preparazione e la preservazione di una componente umana di elevata morale, pronta ad assumersi le responsabilità che corrispondano indipendentemente dal fatto che le circostanze siano favorevoli o avverse.

La conduzione delle FARC non è unipersonale in nessuno dei livelli, non si trovano dei signori della guerra e per questo nelle sue strutture di direzione si ottiene un'adeguata preparazione della militanza. Essa si proietta verso tutti i combattenti, che oltre ad agire in squadre, guerriglie, compagnie e colonne militari, funzionano come cellule politiche che danno vita all'esistenza di un Partito rivoluzionario che supera la componente strettamente militare.
TP: Come si coniuga l'ideale bolivariano e la concezione marxista- leninista nelle file delle FARC -EP?

- Come marxisti e leninisti abbiamo una formazione che ci dà la convinzione della possibilità reale di conquistare un mondo migliore. Crediamo nella necessità di superare il capitalismo come modo di produzione, attualmente in crisi sistemica e decadenza, che sta mettendo a rischio l'esistenza stessa del pianeta.

E siamo certi che l'alternativa è il socialismo come formazione economico-sociale che mette fine alla mercificazione dell'esistenza, con la sua reificazione e mette in cima alle sue preoccupazioni l'essere umano in armonia con i suoi simili e la natura.

Questo tipo di pensiero coincide pienamente con l'insegnamento dell'ideale del Libertador nel piano della solidarietà umana, il senso della patria e la sommatoria della felicità.

La convergenza di questi due pensieri ci dà il senso di quello che dovrebbe essere l'unità della Nostra America secondo un nuovo ordine sociale che beneficia la maggioranza sociale, soprattutto gli oppressi; per questo la nostra parola d'ordine è Patria Grande e Socialismo, nel miglior senso bolivariano e marxista che possono avere queste categorie.


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Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

 
Entrevista exclusiva a la Delegación de Paz de las FARC-EP en La Habana

LA PAZ ES UN DERECHO DE TODOS LOS COLOMBIANOS

Tribuna Popular.- El 26 de agosto de 2012, en La Habana, Cuba, las Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejército del Pueblo (FARC-EP) y el Gobierno de Colombia suscribieron un histórico y esperanzador “Acuerdo general para la terminación del conflicto”.
El 18 de octubre de ese año dieron inicio “conversaciones directas e ininterrumpidas sobre los puntos de la agenda”, que se han conocido como los diálogos de La Habana, “con el fin de alcanzar un Acuerdo Final para la terminación del conflicto que contribuya a la construcción de la paz estable y duradera”.
Los puntos de la agenda son: 1. Política de desarrollo agrario integral; 2. Participación política; 3. Fin del conflicto; 4. Solución al problema de las drogas ilícitas; 5. Víctimas; e, 6. Implementación, verificación y refrendación.
Distintos retos se han tenido que superar en el objetivo de garantizar “la efectividad del proceso y concluir el trabajo sobre los puntos de la agenda de manera expedita y en el menor tiempo posible”, y, a pesar de las visiones distintas de lo que significa “en el menor tiempo posible”, se han alcanzado una serie de acuerdos en los primeros dos puntos de agenda.
Las más diversas organizaciones políticas y sociales, dentro y fuera de Colombia, siguen y apoyan solidaria y activamente estos diálogos, haciendo parte de las amplias, masivas y populares movilizaciones para presionar al gobierno de Juan Manuel Santos para que asuma seriamente la generación de condiciones y garantías para lograr un acuerdo de paz sobre bases sólidas de democracia verdadera, justicia social y soberanía.
Las FARC-EP resaltan que sus banderas históricas “están en el primer orden de la lucha política”, por lo que el gobierno sabe que “nunca hemos estado ni estaremos en plan de rendición”, y que “la única salida que queda es resolver los problemas que generaron el conflicto”.
Patentizando el compromiso con los diálogos de paz, una Comisión del Partido Comunista de Venezuela (PCV), encabezada por su Secretario General, Oscar Figuera, sostuvo reuniones en la capital cubana con la Delegación de Paz de las FARC-EP, organización guerrillera que el próximo 27 de mayo arribará a sus 50 años.
En el marco de estas reuniones, Tribuna Popular realizó una entrevista exclusiva a Iván Márquez, Miembro del Secretariado de las FARC-EP, y Jesús Santrich, del Estado Mayor Central, que seguidamente reproducimos de manera íntegra:

TP: El acuerdo general suscrito con el Gobierno colombiano se plantea la “terminación del conflicto”, ¿la toma del Poder político y la construcción del Socialismo son aún los objetivos de las FARC-EP?
- Lo que en la mesa estamos debatiendo son puntos de aproximación para resolver lo esencial en cuanto a las causas de la miseria, la desigualdad y la falta de democracia, recogiendo sobre todo las iniciativas populares en este campo.
Tenemos claro que no vamos a hacer la revolución en la mesa, pero tampoco se trata de que el gobierno vaya a obtener una paz barata, sin cambios en las injustas estructuras. Estos dependen de la acción organizada de las masas; por ello lo que colocamos como material de discusión, son propuestas mínimas, y no nuestro programa revolucionario hacia el Socialismo, al cual no vamos a renunciar nunca.
TP: ¿Qué entienden ustedes por “terminación del conflicto”?
- El fin del conflicto tiene dos niveles precisos: uno es la terminación de la confrontación militar propiamente dicha, y otro, el fin de la confrontación social que se deriva de los profundos problemas de orden político, económico y social que padecen las mayorías.
Combinando ambos factores, la terminación del conflicto significaría iniciar un largo periodo de tregua bilateral que permita materializar los compromisos concretos de cambio que se logren en la Mesa, pero contando con la participación activa, protagónica del movimiento popular.
Esto seguramente tendrá que estar acompañado de un proceso constituyente que reconfigure el ordenamiento político-social del país. En Colombia se deben crear condiciones y garantías para la existencia de una democracia real que posibilite la solución civilizada de las expectativas de las comunidades.
TP: Ha pasado un año y medio desde la firma del acuerdo general, ¿ustedes se mantienen optimistas con las posibilidades de lograr una “paz estable y duradera”?
- Hemos alcanzado dos acuerdos parciales, muy importantes sobre transformación agraria y participación política, y estamos a punto de lograr algo similar respecto al tema de la sustitución de los cultivos de uso ilícito que hace parte de un problema social mayor, que es el narcotráfico, el cual ha tocado a todo el tejido social y cruza el conjunto de la institucionalidad en Colombia.
Esto, y el respaldo inmenso, que tanto a nivel nacional como internacional tiene el proceso, nos dan el optimismo para mantenernos en la mesa de diálogo.
TP: ¿En qué temas del diálogo hay mayores diferencias con el Gobierno? ¿Cuáles son los nudos que parecen más difíciles de superar?
- Entre el primero y el segundo punto hemos acumulado 24 salvedades que recogen temas respecto a los cuales hay el compromiso de rediscutirlos y encontrarles salidas, porque en ellos están elementos nodales, insalvables, sin los cuales no se podría cerrar un acuerdo definitivo.
Estas salvedades están publicadas en detalle en nuestros sitios de difusión, pero podemos decirle que las primeras giran en torno a la propiedad, tenencia y uso de la tierra, concretamente en la necesidad de acabar con el latifundio, ponerle freno a la extranjerización de la tierra, para alcanzar una verdadera redistribución que ponga fin a ese escandaloso acaparamiento de tierra que existe en el campo.
En este mismo plano se ubica el problema de los conflictos de uso dela tierra que tienen que ver con la nefasta presencia del latifundio ganadero que acumula casi 40 millones de hectáreas (un tercio del territorio nacional) y con la peligrosa expansión minero-energética que amenaza de manera seria el equilibrio ambiental y la sostenibilidad de la economía. Anexo está la presencia rechazada de los tratados de libre comercio, la pretensión de establecer el llamado derecho real de superficie, entre otros elementos que apuntan a un campo sin campesinos para abrirle espacio a los intereses de las trasnacionales. En este punto, el reordenamiento territorial es de interés fundamental.
Las segundas salvedades se refieren al ejercicio de la democracia, a la reestructuración institucional o del Estado, que de manera urgente reclama Colombia en materia electoral, de justicia, de política económica, de organismos de control, salud, educación, etc., pero especialmente el aspecto de la Doctrina de la Seguridad Nacional, incluyendo los cambios que requieren las normas de seguridad ciudadana, que hoy han criminalizado de manera extrema la protesta social.
No vemos mayor dificultad en que lo mencionado se pueda resolver, porque después de un avance como el que ya tenemos, se debe dar una mayor participación de la ciudadanía, del soberano, y lo lógico es que sea una Asamblea Nacional Constituyente, la que, luego de dirimir las diferencias, nos dé un tratado de paz.
TP: ¿Por qué se realizan estos diálogos de paz fuera de Colombia? ¿Hay participación real y efectiva del pueblo colombiano?
- No siempre las FARC han dialogado en territorio colombiano; recuerde que hubo diálogos en Caracas y luego en Tlaxcala, México. La insistencia en que los diálogos se hicieran en Colombia obedecía a que se lograra la mayor participación de las comunidades en la definición de problemas que son de interés nacional. Pero la intransigencia del gobierno a admitir que los diálogos se desarrollaran en el país, podía frustrar una posibilidad de reconciliación.
Por esto decidimos no hacer de este tema un asunto de principios, sobre todo cuando se logró convenir que se harían en el territorio nacional, foros de discusión y se generarían mecanismos para que la gente pudiera hacer presencia en La Habana. Hasta se nos llegó a prometer vuelos chárter con compatriotas que quisieran participar, lo cual, hasta el momento, no se ha concretado, y más bien se amenazó con judicializar a quienes se trasladaran a Cuba a hablar con la Delegación de Paz de la guerrilla.
Por otro lado, la idea de que la sede fuera Cuba, país garante, con el acompañamiento decidido de Venezuela, brindaba un carácter de seguridad y absoluta confianza respecto al escenario de las conversaciones. De verdad estamos totalmente satisfechos de que estos diálogos de paz se escenifiquen en la isla de la libertad. Las FARC están altamente agradecidas con Cuba, su gobierno y su pueblo, que han acogido con absoluto respeto e imparcialidad a las partes.
Finalmente, creemos que lo que concierne a la participación de la gente en la construcción de acuerdos, ya no tendría como obstáculo la geografía, sino la disposición que exista en el gobierno para incluir las propuestas que las organizaciones sociales y políticas del país han hecho llegar a la Mesa. Es necesario que la ciudadanía conozca de los avances y salvedades para que pueda decidir frente a las soluciones, de tal manera que lo que se acuerde, responda a los anhelos de las mayorías que claman por cambios estructurales en nuestro país.
TP: ¿Por qué fracasaron los diálogos anteriores? ¿Qué diferencias hay con el proceso actual?
- La Uribe [1984] fracasó porque, luego de firmado el acuerdo y del surgimiento de la Unión Patriótica para hacer política en condiciones de democracia, se produjeron incumplimientos, violaciones a la tregua bilateral y una ola de asesinatos contra dirigentes y militantes del nuevo movimiento, que se convirtió en el genocidio político más grande de la historia reciente de América Latina.
Caracas [1991] y Tlaxcala [1992] fracasaron porque en vez de resolver los profundos problemas sociales que han generado la confrontación, el gobierno decidió atender al consenso de Washington y darle curso a la apertura económica neoliberal que profundizó las condiciones de miseria y desigualdad en Colombia.
Como lo confesó el propio presidente Pastrana en sus memorias del proceso, el gobierno no buscaba la reconciliación en el Caguán [1998-2002], sino ganar tiempo para la reingeniería del ejército. Necesitaba frenar la dinámica de derrotas sucesivas de ese ejército a manos de la guerrilla y eliminar cualquier expresión de inconformidad relacionada con la profundización del neoliberalismo. No había voluntad de paz en ese gobierno; de hecho, en pleno desarrollo de los diálogos toleró masacres paramilitares contra la población, y una vez los estrategas de Washington tuvieron listo el Plan Colombia, con cualquier pretexto rompió los diálogos y desencadenó la guerra.
A pesar de todo esto, persistimos en encontrar salidas políticas, porque la paz es nuestro propósito estratégico. Vemos que es posible convenir fórmulas para solucionar problemas esenciales sobre la tenencia y uso de la tierra, abrir las puertas a la participación política ciudadana, y generar cambios estructurales que favorezcan a las mayorías; por eso estamos en La Habana.
Si se observa bien, lo común que ha operado como factor de obstrucción y fracaso en los tres intentos de paz a través del diálogo, fue pretender la desmovilización de la insurgencia sin cambios en las injustas estructuras políticas, económicas y sociales.
La diferencia radica en que el gobierno tiene una experiencia; sabe que nunca hemos estado ni estaremos en plan de rendición, y eso le da elementos suficientes para entender que la única salida que queda es resolver los problemas que generaron el conflicto si se quiere edificar la paz sobre bases sólidas.
TP: El gobierno colombiano se ha negado a aceptar un cese al fuego bilateral y ha persistido en su línea militarista ¿piensan ustedes que tiene voluntad real de lograr acuerdos de paz?
- El militarismo es uno de los elementos que habría que eliminar de cualquier escenario de debate político. Cuando el gobierno resuelva dejar atrás el aspecto ya mencionado de la Doctrina de Seguridad Nacional, la concepción del enemigo interno y el paramilitarismo, es decir, la guerra sucia, podríamos decir que ha pasado de la retórica a la práctica en lo que concierne a una voluntad de paz cierta.
Entre tanto nosotros, con las declaratorias de tregua unilateral y muchas otras muestras de deseo de reconciliación, lo que hemos pretendido es contribuir a crear el mejor ambiente para los acercamientos y amainar para la población las duras consecuencias de la guerra. Ojalá el gobierno en algún momento asuma la misma actitud y abandone la vana idea que con presiones militares va a lograr ventajas en la Mesa, pues aquí las ventajas no deben ser para ninguna de las partes en particular, sino para el conjunto de la sociedad.
TP: ¿Permitirá la oligarquía colombiana que avancen los esfuerzos de paz y las garantías de participación política democrática?
- La idea de dialogar es precisamente construir los espacios de participación democrática. Esto no es fácil, porque más allá de expresar disposición en el discurso, hay que expresarla en la práctica, y sobre este último aspecto es que estamos llamando la atención. Por eso hemos dicho que se requieren cambios fácticos que trasciendan la retórica gubernamental.
Hasta el momento los asesinatos no cesan, la persecución de los dirigentes populares, los encarcelamientos y la criminalización de la protesta social, tampoco, así que nuestro optimismo es moderado porque la realidad, en la que con constancia asoman los dientes del militarismo, llena el camino de incertidumbres.
Nunca hemos olvidado que las élites colombianas, son unas élites sanguinarias. Esperamos que la contraparte rectifique, y que factores fascistas que atizan la guerra y la degradan, como el uribismo, se terminen de ahogar en su propio fango.
TP: El acuerdo suscrito establece que el Gobierno deberá combatir a las organizaciones criminales, pero son conocidos sus nexos históricos con el paramilitarismo ¿qué expectativas tienen de que cumpla este punto?
- Esto tiene que ver con el tema de la doctrina de Seguridad. Si ésta no cambia es imposible que el paramilitarismo o la denominación que le den, como la actual de bandas criminales (BACRIM), culmine. Si no hay una decisión política tajante, sencillamente estaríamos abocados a un nuevo fracaso, porque la guerra sucia se erigiría, como lo prevé el Fiscal General de la Nación, Eduardo Montealegre, en el principal obstáculo para la paz. Entonces este es un aspecto que implica no solamente expectativas.
En esto no podemos atenernos sólo a promesas, sino a hechos palpables. La desactivación del paramilitarismo tiene que estar a la vista de todos, y ello implica una depuración de la institucionalidad armada que incluya la desmilitarización del Estado y de la sociedad.
TP: ¿Tienen previsto el tiempo que podrá tomar la firma del Acuerdo Final?
- A este empeño hay que dedicarle todo el tiempo que se requiera sin ponerlo a depender de premuras electorales, legislativas o de cualquier otro tipo. Es más, la paz debe ser una política de Estado y no obedecer a intereses o caprichos de algún gobierno en particular, pues esta es una confrontación que ya completa medio siglo, y por eso mismo requiere de un análisis reposado de sus causas y soluciones. De nuestra parte, trabajamos incansablemente para que ello suceda en el menor tiempo posible.
TP: Para fortalecer el proceso de paz, ¿qué papel debe jugar el Congreso electo el pasado 9 de marzo?
- El Congreso de la República recién elegido, con pocas excepciones, es la reedición de una institución desprestigiada y corrupta con la que desafortunadamente habrá que contar para hacer cualquier acuerdo político en favor de la paz, pero no en cuanto a que es éste quien va hacer las transformaciones que se necesitan, pues ahí no hay autoridad ni voluntad para que esto sea posible.
No obstante el mecanismo de refrendación para el proceso, debe contar, si seguimos el camino de las formalidades, con el parlamento. Ya está claro que no será a través del referendo [propuesto por Santos el año pasado] que se pretendía imponer para realizarse en estas elecciones. Ese intento definitivamente se hundió. Pero de todas maneras hay que buscar una salida que concilie el sentir del gobierno y el de las FARC, pero sobre todo que abra amplios espacios de participación ciudadana.
Nuestra propuesta es la Constituyente, pero esto es algo para debatirlo, para hacerlo converger con lo que piensa el gobierno y cualquier otra iniciativa que pueda darle protagonismo al soberano, porque en definitiva es el pueblo quien debe sentar la última palabra.
TP: El próximo 25 de mayo son las elecciones presidenciales en Colombia, ¿qué tanto depende de estas elecciones el proceso de paz?
- Como dijimos hace un rato, la paz como propósito superior debiera contar con una política de Estado y no depender de coyunturas legislativas o electorales o de caprichos de partidos o gobiernos. Todos los candidatos debieran estar comprometidos con el objetivo de sacar adelante los diálogos.
Esperamos que esto sea así, en el entendido que la paz no debe ser de derecha ni de izquierda, para liberales, conservadores, verdes o comunistas; la paz es un derecho de todos los colombianos. Y debe edificarse sobre bases de democracia verdadera, justicia social y soberanía.
TP: ¿Ya han definido la figura o el tipo de organización con el que actuarán políticamente en la vida civil? ¿Qué tácticas –distintas a la lucha guerrillera– se proponen desarrollar?
- El tránsito hacia formas de lucha que no requieran del uso de las armas depende de los cambios fácticos que se logren en materia de democracia y de redistribución de la riqueza; depende de que Colombia retome su independencia y soberanía y el gobierno que se establezca atienda los intereses populares.
Esto no se dará de un día para otro, pero sí implica que debamos experimentar, en medio de la tregua, de manera práctica, que el compromiso del Estado con la paz, sea cierto. Para ello, sin duda, tendremos que actuar con los instrumentos de la lucha política abierta, en amplia convergencia con los sectores populares y democráticos del país que hasta ahora el sistema mantiene en situación de exclusión o marginalidad. En ese ejercicio, con seguridad el nombre histórico de las FARC mantendrá su presencia.
TP: ¿La perspectiva real de lograr el fin del conflicto ha incidido en la disposición combativa de la guerrillerada?
- En la conciencia de los guerrilleros de las FARC lo que se inculca, como constante, es que el propósito mayor de nuestra lucha es la paz con justicia social y que las armas son solamente un instrumento para lograrlo en unas circunstancias difíciles, de guerra sucia, de cierre de los espacios de participación, de terrorismo de Estado y asimetrías, pero las armas no son un fin en sí; lo más importante son los propósitos por los que lucha nuestra gente, de tal manera que hay preparación para actuar en cualquier campo, con armas o sin armas. Recuérdese que las FARC son un ejército, pero ante todo, son un Partido político revolucionario.
TP: Tras 50 años de lucha, ¿el proyecto político de las FARC-EP sigue vigente y con perspectivas de futuro?
- El programa político de las FARC tiene absoluta vigencia, sobre todo si consideramos que las causas que engendraron la confrontación, en vez de resolverse, se han profundizado. Las razones para utilizar las armas se mantienen y aspiramos que estos diálogos coloquen las bases para convencernos de que a futuro ya no será necesario su uso, pero las banderas que levantamos por la tierra y el territorio, por la fundación de la democracia, el cambio de la política económica, la defensa de la soberanía, etc., están en el primer orden de la lucha política, porque son los anhelos principales de las mayorías.
Después de 50 años de lucha, nunca antes habían tenido tantas posibilidades de triunfo las banderas revolucionarias de las FARC.
TP: ¿Cómo garantizan las FARC-EP la continuidad político-militar en su Dirección?
- Esta es una organización político-militar bolivariana, con estructura leninista de organización, que implica dirección colectiva, acumulación ordenada de experiencias, permanencia de escuelas de formación de cuadros, existencia de estructuras centralizadas, una democracia interna fuerte, pero también con importantes niveles de compartimentación que permiten la preparación y la preservación de un componente humano de elevada moral, listo para asumir las responsabilidades que correspondan independientemente de que las circunstancias sean favorables o adversas.
La conducción de las FARC no es unipersonal en ninguno de los niveles, no se abrigan los caudillismos, y por eso en sus estructuras de dirección se logra una preparación adecuada de la militancia. Eso se proyecta hacia el conjunto de los combatientes, que además de actuar en escuadras, guerrillas, compañías y columnas militares, funcionan como células políticas que le dan vida a la existencia de un Partido revolucionario que sobrepasa el componente estrictamente militar.
TP: ¿Cómo se conjugan el ideario bolivariano y la concepción marxista-leninista en las filas de las FARC-EP?
- Como marxistas y leninistas tenemos una formación que nos da convencimiento de la
posibilidad real de lograr un mundo mejor. Creemos en la necesidad de superar el capitalismo como modo de producción, actualmente en crisis sistémica y decadencia, que está poniendo en riesgo la existencia misma del planeta.
Y tenemos la certeza de que la alternativa está en el Socialismo como formación económica-social que acabe con la mercantilización de la existencia, con su cosificación y ponga en primer plano de sus preocupaciones al ser humano en armonía con sus congéneres y la naturaleza.
Este tipo de pensamiento coincide plenamente con lo que enseña el ideario del Libertador en el plano de la solidaridad humana, el sentido de patria y la sumatoria de felicidad.
La convergencia de estos dos pensamientos nos da el rumbo de lo que debe ser la unidad de Nuestra América en función de un nuevo orden social que beneficie a las mayorías, sobre todo a los oprimidos; por eso nuestra consigna de Patria Grande y Socialismo, en el mejor sentido bolivariano y marxista que puedan tener estas categorías.




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