venerdì 25 maggio 2012

Il crimine di Gheddafi: Far funzionare l'economia della Libia a vantaggio dei libici / Gadhafi’s Crime: Making Libya’s Economy Work for Libyans


Il crimine di Gheddafi: Far funzionare l'economia della Libia a vantaggio dei libici

di Gowans Stephen
"Le compagnie petrolifere sono controllate da stranieri, che grazie ad esse hanno guadagnato milioni. Ora, i libici devono trarre profitto da questo denaro", Muammar Gheddafi, 2006.
Il Wall Street Journal del 5 maggio fornisce la prova, oltre a quelle già raccolte, che alla radice dell'intervento militare della NATO in Libia dello scorso anno vi era l'opposizione alla politica economica del governo Gheddafi.
Secondo il quotidiano statunitense, gli accordi più favorevoli ai libici, che il governo Gheddafi stava contrattando, fecero infuriare le compagnie petrolifere private tanto da "sperare in un cambio di regime in Libia... che potrebbe alleggerire alcune delle dure condizioni che avevano dovuto accettare nella partnership" con la compagnia petrolifera nazionale libica. [1]
Per decenni, molte compagnie europee avevano goduto di accordi che garantivano loro la metà della del petrolio di alta qualità prodotto negli impianti libici. Alcune grandi compagnie petrolifere speravano che il paese avrebbe aperto ulteriormente agli investimenti, dopo che da Washington erano state revocate le sanzioni nel 2004 e i giganti statunitensi erano rientrati nella nazione nordafricana.
Ma negli anni che seguirono, il regime di Gheddafi rinegoziò la quota delle compagnie petrolifere spettante da ogni impianto, facendola passare dal 50% circa a un decisamente più basso 12%.
Subito dopo la caduta del regime, diverse compagnie petrolifere straniere hanno manifestato la speranza di ottenere condizioni migliori negli accordi esistenti o più interessanti per quelli futuri. Fra quelle che nutrono speranze in un'espansione libica vi sono la francese Total e l'olandese Shell.
"Vediamo la Libia sotto il nuovo governo come una grande opportunità", diceva Sara Akbar, amministratore delegato della compagnia privata Kuwait Energy, lo scorso novembre in un'intervista, e aggiungeva che "Sotto Gheddafi, le esplorazioni erano ferme a causa dei termini molto duri". [2]
Il giornale aveva già riferito dei termini "duri" (leggasi pro-libici) che il governo Gheddafi aveva imposto alle compagnie petrolifere straniere.
Nel quadro di un nuovo e più stringente sistema, noto come EPSA-4, il regime vagliava le offerte delle grandi compagnie discriminando sulla base di quanta parte della produzione futura avrebbero lasciato la Libia. I vincitori abitualmente promettevano oltre il 90% della loro produzione alla National Oil Corp. (NOC, la compagnia nazionale petrolifera libica).
Intanto, la Libia manteneva i suoi gioielli off limits agli stranieri. Gli immensi campi petroliferi terrestri, che rappresentavano la maggior parte della sua produzione, rimanevano prerogativa delle compagnie statali libiche.
Anche le imprese da anni presenti in Libia avevano ricevuto un trattamento duro. Nel 2007, le autorità iniziarono a forzarle per rinegoziare i loro contratti per portarli in linea con EPSA-4.
Una vittima è stata Eni, il colosso energetico italiano. Nel 2007, ha dovuto pagare 1 miliardo di dollari di incentivi per riuscire a prolungare la durata dei suoi interessi libici fino al 2042. Anche la sua quota di produzione è caduta dal 35-50%, a seconda dell'impianto, ad appena il 12%. [3]
L'insoddisfazione delle compagnie petrolifere stava anche nel fatto che la compagnia di stato libica "stabiliva che le società straniere dovevano assumere libici ai migliori posti di lavoro". [4]
Nel novembre 2007, il dipartimento di Stato degli Stati Uniti avvertiva che "la leadership politica ed economica della Libia persegue politiche sempre più nazionalistiche nel settore energetico" e che vi erano "prove crescenti di nazionalismo sulle risorse libiche" [5], citando un discorso del 2006 in cui Gheddafi dichiarava: "Le compagnie petrolifere sono controllate da stranieri che grazie ad esse hanno guadagnato milioni. Ora, i libici devono trarre profitto da questo denaro". [6]
Il Governo di Gheddafi aveva forzato le compagnie petrolifere a dare alle loro filiali locali dei nomi libici. Peggio ancora, "le leggi sul lavoro sono state modificate per 'libianizzare' l'economia", vale a dire riformate a vantaggio dei libici. Le compagnie petrolifere "sono state spinte ad assumere dirigenti, tecnici e capi del personale libici". [7]
Il New York Times riassume così le critiche dell'Occidente. "Il colonnello Gheddafi si è dimostrato essere un partner problematico per le compagnie petrolifere internazionali, alzando spesso tasse ed imposte ed avanzando altre richieste". [8]
Anche se l'opposizione delle compagnie petrolifere private e del governo degli Stati Uniti alle politiche economiche filo-libiche di Gheddafi non prova che l'intervento militare della NATO sia avvenuto per rovesciare il governo, è tuttavia coerente con tutta una serie di prove che vanno in questa direzione.
In primo luogo, possiamo rigettare le argomentazioni occidentali che spiegano l'impiego della sua alleanza militare per motivi umanitari. Mentre la guerra civile in Libia diventava incandescente, un'alleanza di petromonarchie a guida saudita inviava truppe e carri armati in Bahrain per schiacciare una rivolta. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia - alla guida  dell'intervento in Libia - non hanno fatto nulla per fermare questa violenta repressione. Significativamente, il Bahrain ospita la V Flotta statunitense. Altrettanto significativamente, la sua politica economica, a differenza della Libia sotto Gheddafi - è stata concepita per mettere gli investitori stranieri al primo posto.
In secondo luogo, quei paesi oggetto dei tentativi occidentali di cambio di regime - Corea del Nord, Siria, Venezuela, Cuba, Zimbabwe, Bielorussia, Iran - hanno posto gli interessi economici di tutta o una parte della loro popolazione, sopra quelli degli investitori e delle società straniere. È vero che le politiche economiche di India, Russia e Cina sono in certe misure nazionaliste e che questi paesi non devono affrontare nella stessa misura le pressioni per un cambio di regime, ma per un'alleanza statunitense sono troppo grandi da conquistare senza un pesante costo in sangue e denaro. L'Occidente prende di mira i più deboli.
Infine, i governi occidentali sono dominati da grandi investitori e compagnie. Il dominio delle corporation e della finanza sullo  Stato avviene in diversi modi: con attività di lobby; comprando i  politici attraverso il finanziamento della campagna elettorale e la promessa di incarichi remunerativi dopo il mandato; attraverso il finanziamento di think-tank per guidare la politica del governo e con la collocazione di amministratori delegati e avvocati aziendali nelle posizioni chiave dello Stato. Aspettarsi che la politica estera sia modellata su preoccupazioni di carattere umanitario e non invece sugli interessi delle industrie petrolifere, di armi, delle società specializzate nella ricostruzione e esportazione post-bellica, significa di ignorare la grande influenza che il grande capitale e la grande finanza esercitano sugli Stati occidentali.
In alcune parti del mondo è diverso. Là, i governi hanno orientato le economie al servizio dei loro cittadini, piuttosto che mettere il lavoro, i mercati del paese e le loro risorse naturali, al servizio degli investitori esterni e delle grandi aziende straniere.
Per aver rifiutato di sacrificare la vita dei loro cittadini all'arricchimento dei titani stranieri della finanza e dell'industria, a questi paesi viene fatto pagare un prezzo. I loro dirigenti sono vilipesi dalla becera propaganda e minacciati di persecuzioni da parte dei tribunali penali internazionali finanziati e controllati dagli Stati occidentali. Sono colpiti con devastanti blocchi economici e da sanzioni le cui caotiche conseguenze sono ingiustamente addossate alla "cattiva gestione" e alle "errate" politiche economiche, con lo scopo di creare una miseria diffusa e spingere le popolazioni a sollevarsi contro i loro governi. Con il finanziamento e supporto occidentale vengono create delle quinte colonne per progettare il cambiamento di regime dall'interno. Infine, l'onnipresente minaccia di un intervento militare esterno che è mantenuta per fare pressione sui governi di questi paesi affinché facciano marcia indietro.
 I peccati di Gheddafi non erano crimini contro l'umanità, ma azioni al suo servizio. La sua reputazione infangata, il governo rovesciato, il paese assediato dall'esterno e destabilizzato dall'interno, la sua vita finita per aver osato mettere in atto un'idea radicale - spingere l'economia al servizio del popolo del proprio paese, piuttosto che il suo popolo e le sue risorse naturali al servizio degli interessi delle imprese straniere.

Note
1, 2. Benoit Faucon, "For big oil, the Libya opening that wasn't, " The Wall Street Journal, May 4, 2012.
3, 4. Guy Chazan, "For West's oil firms, no love lost in Libya, " The Wall Street Journal, April 15, 2011.
5, 6, 7. Steven Mufson, "Conflict in Libya: U.S. oil companies sit on sidelines as Gaddafi maintains hold, " The Washington Post, June 10, 2011.
8. Clifford Kraus, "The scramble for access to Libya's oil wealth begins, " The New York Times, August 22, 2011.

Gadhafi’s Crime: Making Libya’s Economy Work for Libyans

Written by Stephen Gowans, What's Left
Oil companies are controlled by foreigners who have made millions from them. Now, Libyans must take their place to profit from this money.”—Muammar Gadhafi, 2006.
The Wall Street Journal of 5 May offers evidence, additional to that already accumulated, that last year’s NATO military intervention in Libya was rooted in objections to the Gadhafi government’s economic policies.
According to the newspaper, private oil companies were incensed at the pro-Libyan oil deals the Gadhafi government was negotiating and “hoped regime change in Libya…would bring relief in some of the tough terms they had agreed to in partnership deals” with Libya’s national oil company. [1]
For decades, many European companies had enjoyed deals that granted them half of the high-quality oil produced in Libyan fields. Some major oil companies hoped the country would open further to investment after sanctions from Washington were lifted in 2004 and U.S. giants re-entered the North African nation.
But in the years that followed, the Gadhafi regime renegotiated the companies’ share of oil from each field to as low as 12%, from about 50%.
Just after the fall of the regime, several foreign oil companies expressed hopes of better terms on existing deals or attractive ones for future contracts. Among the incumbents that expressed hopes in Libyan expansion were France’s Total SA and Royal Dutch Shell PLC.
We see Libya as a great opportunity under the new government,’ Sara Akbar, chief executive of privately owned Kuwait Energy Co., said in an interview in November. ‘Under Gadhafi, it was off the radar screen’ because of its ‘very harsh’ terms, said Mrs. Akbar. [2]
The Journal had earlier noted the “harsh” (read pro-Libyan) terms the Gadhafi government had imposed on foreign oil companies.
Under a stringent new system known as EPSA-4, the regime judged companies’ bids on how large a share of future production they would let Libya have. Winners routinely promised more than 90% of their oil output to NOC (Libya’s state-owned National Oil Corp).
Meanwhile, Libya kept its crown jewels off limits to foreigners. The huge onshore oil fields that accounted for the bulk of its production remained the preserve of Libya’s state companies.
Even firms that had been in Libya for years got tough treatment. In 2007, authorities began forcing them to renegotiate their contracts to bring them in line with EPSA-4.
One casualty was Italian energy giant Eni SpA. In 2007, it had to pay a $1 billion signing bonus to be able to extend the life of its Libyan interests until 2042. It also saw its share of production drop from between 35% and 50%—depending on the field—to just 12%. [3]
Oil companies were also frustrated that Libya’s state-owned oil company “stipulated that foreign companies had to hire Libyans for top jobs.” [4]
A November 2007 US State Department cable had warned that those “who dominate Libya’s political and economic leadership are pursuing increasingly nationalistic policies in the energy sector” and that there was “growing evidence of Libyan resource nationalism.” [5]
The cable cited a 2006 speech in which Gadhafi said: “Oil companies are controlled by foreigners who have made millions from them. Now, Libyans must take their place to profit from this money.” [6]
Gadhafi’s government had forced oil companies to give their local subsidiaries Libyan names. Worse, “labor laws were amended to ‘Libyanize’ the economy,” that is, turn it to the advantage of Libyans. Oil firms “were pressed to hire Libyan managers, finance people and human resources directors.” [7]
The New York Times summed up the West’s objections. “Colonel Gadhafi,” the US newspaper of record said last year, “proved to be a problematic partner for international oil companies, frequently raising fees and taxes and making other demands.” [8]
To be sure, that private oil companies and the US government objected to Gadhafi’s pro-Libya economic policies doesn’t prove that NATO intervened militarily to topple the Gadhafi government. But it is consistent with a panoply of evidence that points in this direction.
First, we can dismiss the West’s claims that it pressed its military alliance into service on humanitarian grounds. As civil strife heated up in Libya, a Saudi-led alliance of petro-monarchies sent tanks and troops to crush an uprising in Bahrain. The United States, Britain and France—leaders of the intervention in Libya—did nothing to stop the violent Bahraini crackdown. Significantly, Bahrain is home to the US Fifth Fleet. Equally significantly, its economic policies—unlike Libya’s under Gadhafi—are designed to put foreign investors first.
Second, without exception, countries that are the object of Western regime change efforts—North Korea, Syria, Venezuela, Cuba, Zimbabwe, Belarus, Iran—have set the economic interests of some part of their populations, or all of it, above those of foreign investors and foreign corporations. True, the economic policies of India, Russia and China are nationalist to some degree, and yet these countries do not face the same extent of regime change pressures, but they are too large for a US alliance to conquer without an onerous expense in blood and treasure. The West targets the weak.
Finally, Western governments are dominated by major investors and corporations. Corporate and financial domination of the state happens in a number of ways: lobbying; the buying of politicians through political campaign funding and the promise of lucrative post-political jobs; the funding of think-tanks to recommend government policy; and the placement of corporate CEOs and corporate lawyers in key positions in the state. To expect that foreign policy is shaped by humanitarian concerns and not the profit-making interests of oil companies, arms manufacturers, exporters, and engineering firms seeking infrastructure and reconstruction contracts aboard is to ignore the enormous influence big business and big finance exert over Western states.
In some parts of the world, the arrangement is different. There, governments have organized their economies to serve their citizens, rather than organizing labor, the country’s markets and its natural resources to serve outside investors and foreign corporations.
For refusing to give their citizens’ lives over to the enrichment of foreign titans of finance and captains of industry, these countries are made to pay a price. Their leaders are vilified by scurrilous propaganda and threatened with prosecutions by international criminal tribunals funded and controlled by Western states; they’re targeted by economy-disrupting blockades and sanctions whose chaotic effects are dishonestly blamed on the governments’ “mismanagement” and “unsound” economic policies and whose aim is to create widespread misery to pressure populations to rise up against their governments; fifth columns are created with Western funding and support to engineer regime change from within; and the omnipresent threat of outside military intervention is maintained to pressure the countries’ governments to back down from putting their citizens’ interests first.

Gadhafi’s sins weren’t crimes against humanity but actions in its service. His reputation blackened, government overthrown, country besieged from without and destabilized from within, his life was ended for daring to enact a radical idea—pressing the economy into the service of the people of his country, rather than the people of his country and their natural resources into the service of foreign business interests.

May 6, 2012

Endnotes
1,2. Benoit Faucon, “For big oil, the Libya opening that wasn’t,” The Wall Street Journal, May 4, 2012.
3, 4. Guy Chazan, “For West’s oil firms, no love lost in Libya,” The Wall Street Journal, April 15, 2011.
5,6,7. Steven Mufson, “Conflict in Libya: U.S. oil companies sit on sidelines as Gaddafi maintains hold,” The Washington Post, June 10, 2011.
8. Clifford Kraus, “The scramble for access to Libya’s oil wealth begins,” The New York Times, August 22, 2011.



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