mercoledì 18 febbraio 2015

Il Golpe sventato e la formula “magica” del 31F


In questo secondo editoriale per Caracas ChiAma, Geraldina Colotti ci descrive con una appassionante lucidità lo scenario turbolento che sta affrontando il processo rivoluzionario in Venezuela, tra golpisti filo USA e resistenza popolare. E ci svela la storia del 31F: una formula “matematica” destinata a fare la Storia del ribelle continente latinoamericano.

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Per spiegare quel che stava succedendo, Chávez riprese una“formula matematica” usata dai movimenti allora: 27 Febbraio (il caracazo) + 4 Febbraio(la ribellione civico-militare)= 31 Febbraio: 31F; una terza via, utopica ediversa, un giorno che non esiste sul calendario, “por ahora”.
Prove di golpe in Venezuela. Un gruppo di ufficiali dell’aviazione, in combutta con personaggi dell’opposizione e solidi appoggi in Nord America, progettava di uccidere il presidente, bombardare Miraflores e prendere la guida del paese, confidando in una nuova esplosione di guarimbas (micidiali tecniche di guerriglia di strada inventate dall’estrema destra). Questa la denuncia di Nicolas Maduro, che ha diffuso i particolari del piano con tanto di mappe, nomi e cognomi. Un carnevale di sangue nel Carnevale in corso in Venezuela.
Sull’efficacia di un piano simile, per fortuna, è lecito dubitare. Quell’aereo Tucano “importato dall’estero” per sganciare gli ordigni avrebbe fatto poca strada nei cieli della capitale: per la reazione delle Forze armate, nella stragrande maggioranza leali al governo, e per quella del popolo venezuelano, sempre allerta in momenti di crisi come quella attuale.
Tuttavia, all’interno dell’opposizione venezuelana esiste una vena golpista che non è mai venuta meno. I volti dei principali dirigenti delle destre, che hanno organizzato le violente proteste dell’anno scorso per chiedere la cacciata di Maduro dal governo (e la sua eliminazione), sono sempre lì a rappresentarla. Per iniziare, Maria Corina Machado, la grande amica di George W. Bush e fondatrice di Sumate (emanazione della Cia). La sua firma figurava fra le trecento che hanno appoggiato il governo-lampo di Carmona Estanga -capo della locale
Confindustria- instaurato dopo il golpe contro Chávez del 2002. Poi, Leopoldo Lopez (Voluntad Popular), che allora attaccò l’ambasciata cubana col personale dentro. Con lui c’era un altro noto personaggio: Henrique Capriles (PrimeroJusticia), candidato dell’opposizione (sempre perdente), prima contro Chavez poi contro Maduro. E ancora, Antonio Ledezma (sindaco della Gran Caracas), noto repressore di studenti nella IV Repubblica. Dallo stesso album di famiglia emergono poi certe gerarchie ecclesiastiche, che restano ancora “un partito” d’opposizione. Senza dimenticare il peso dei grandi media privati, che rispondono sempre agli stessi padroni.
Nella storia delle Forze Armate venezuelane, la vocazione golpista e autoritaria è andata progressivamente scemando in favore di quella nazionalista e socialista. Come ha documentato nelle sue interviste il giornalista José Vicente Rangel, già all’indomani dell’insurrezione civico-militare del 4 Febbraio ’92 Chávez precisava che lui e gli ufficiali progressisti non avevano niente a che fare con le svolte autoritarie che stavano progettando alcune élite militari. E a chi lo considerava un “golpista diprofessione”, rispondeva: “Neanche per idea. Sono un militante delle lotte sociali, un rivoluzionario impegnato nella causa del popolo. Sono stato un cospiratore per necessità storica, dopo aver riflettuto sul massacro del Caracazo, il 27 febbraio del 1989, che ha mostrato la crisi strutturale di questo sistema. Come diceva Gramsci, il vecchio muore, ma il nuovo fa fatica a nascere...”. Per spiegare quel che stava succedendo, Chávez riprese una “formula matematica” usata dai movimenti allora: 27 Febbraio (il caracazo) + 4 Febbraio (la ribellione civico-militare)= 31 Febbraio: 31F; una terza via, utopica e diversa, un giorno che non esiste sul calendario, “por ahora”.
Oggi, l’unione civico-militare permea tutti i livelli della vita politica, economica e sociale: dagli ex ufficiali che governano, a quelli che portano nelle regioni indigene gli elettrodomestici forniti dal governo per le case popolari. La composizione “ideologica” dell’esercito è varia: ce ne sono di più marxisti o più nazionalisti, più convinti che si debba difendere il socialismo o più convinti che si debba comunque essere leali al governo quale che sia. L’immagine degli Alti comandi che hanno manifestato a pugno chiuso fedeltà al socialismo non è di facciata. Come è realtà che vi sia qualche corrente interna che sogna di utilizzare a fini politici un colpo di mano militare. Così come è vero che anche la destra (votata da oltre il 40% della popolazione) ha la sua influenza sulle forze armate. “Le Forze armate non devono essere al servizio del socialismo. Vedere gli alti comandi che gridano ‘Patria socialista’ mostra che sono state trasformate in un partito politico”, ha detto Roberto Enriquez, presidente del partito Copei (equivalente della ex Democrazia cristiana in Italia). A suo modo, ha ragione. Quella venezuelana, non sarà l’Armata rossa di Lenin, ma è un esercito del popolo. Al servizio e al fianco del popolo.
Gruppi di ufficiali legati alle destre e al grande capitale internazionale hanno condotto il golpe contro Chávez del 2002, e spuntano sempre fuori durante le violenze eversive o i tentativi destabilizzanti. Perciò, seppure in questo caso hanno fallito grazie all’attività di prevenzione dell’intelligence bolivariana, e per l’elevato tasso di cialtroneria che sembra contraddistinguere le loro azioni, non sfugge che il Venezuela è sottoposto a un costante livello di pressione interna: simile a una guerra di debole intensità pronta a raggiungere il picco secondo il copione di Gene Sharp, che, dalla ex-Jugoslavia in poi, si insegna nelle scuole della Cia. Così, se quel Tucano si fosse alzato in volo, di certo vi sarebbero stati morti, e questo avrebbe offerto altre corde all’arco della propaganda mediatica contro il socialismo bolivariano.
Per i media nostrani, vale la logica dei due pesi e due misure. In Italia, pugno di ferro contro chi tira una molotov contro le betoniere, e tribunale per uno scrittore non genuflesso come Erri De Luca; in Venezuela, apologia della “rivolta dei ricchi”: anche quando sgozzano con le guarimbas, bruciano gli scuolabus o i gabbiotti del metro con gli operai dentro, restano “sinceri democratici” oppressi dal “regime”. In Italia, applausi ai poliziotti che torturano, ai fascisti e ai razzisti al governo, e 41 bis ai detenuti “pericolosi”; in Venezuela, urla, strepiti e schiamazzi contro “l’insicurezza” se il chavismo lavora per risolvere le cause e non gli effetti, salvo poi gridare “al tiranno” se chi commette un delitto viene messo in galera.
Premesso che è sempre buona norma per i movimenti e per i rivoluzionari guardarsi dall’eccesso di identificazione con l’ “ordine istituito” (soprattutto quando lo stato “socialista” è la risultante di un compromesso fra le classi e non – come si diceva una volta – espressione del potere del proletariato organizzato nel suo partito), difendere il socialismo bolivariano ha una portata concreta e simbolica che va al di là del contingente.
Dal colpo di stato sventato, emergono due immagini forti: quella degli alti comandi militari bolivariani che gridano
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“Patria socialista” a pugno chiuso; e il “Manifesto per la transizione”, che i golpisti avrebbero pubblicato su un grande quotidiano nazionale come inserzione pubblicitaria e che avrebbe costituito il segnale d’avvio per gli ufficiali golpisti. Un documento i cui punti sarebbero condivisibili per qualunque “sinistra” europea asservita alla Troika, e che prevedono il ritorno a un sistema di governo bocciato dal popolo 15 anni fa. E c’è da scommettere che le affermazioni del presidente del Copei troveranno, a “sinistra”, più consenso di quegli alti comandi a pugno chiuso. Poco importa se il governo venezuelano da 15 anni viene laureato dalle urne con una partecipazione elettorale impensabile per le “maggioranze” italiane o europee. Poco importa se quell’esercito “a pugno chiuso” non viene impiegato per “le guerre umanitarie ”o le avventure libiche, ma per compiti di pace e sviluppo. E non si tratta del legittimo timore che può rappresentare una divisa militare in un paese, come il nostro, con il suo persistente sottofondo fascista. A disturbare è proprio quel pugno chiuso.
Per quanto geograficamente lontano, infatti, evoca ancora una grande paura: la paura delle masse, del socialismo e della rivoluzione, rimossa nel calderone del consociativismo, del pentitismo e della dissociazione. Una paura che ha allontanato persino il ricordo della “rivoluzione dei garofani”, attuata dai militari progressisti contro il regime autoritario di Antonio Salazar in Portogallo, nel 1974. Figuriamoci il “cortocircuito “determinato da Chávez nelle “democrazie puntofijiste” della IV Repubblica.
Sì, è proprio quel pugno chiuso per il governo che fa paura e che disturba. Che complica il cammino della solidarietà internazionale.

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