martedì 21 febbraio 2012

I 5 cubani ringraziano per la solidarietà degli universitari/Documento:Contro Cuba il solito,triste mercato Usa dei diritti umani.




I Cinque cubani ringraziano per la solidarietà degli universitari
L'Avana, 20 feb (Prensa Latina) I Cinque cubani incarcerati negli Stati Uniti da più di 13 anni ringraziarono gli universitari riuniti in un congresso internazionale a L'Avana per la solidarietà con la loro causa.
Grazie nuovamente per questa opportunità e per tutto quello che fate, giorno per giorno, per la nostra causa, per la nostra libertà, espressero Renè Gonzalez, Gerardo Hernandez, Antonio Guerrero, Fernando Gonzalez e Ramon Labañino, il primo di questi in libertà vigilata.
Siamo convinti che un giorno di questi potremo chiacchierare in una riunione tutti insieme, espresse la missiva letta nella chiusura di Università 2012, nella quale hanno partecipato circa tre mila 500 delegati di 67 paesi.
Raccomandarono ai partecipanti incorporare tutti gli sviluppi scientifici ottenuti nei centri universitari e di investigazione, con enfasi nell'area delle comunicazioni per usare vie rapide ed effettive per l'unità.
Con l'uso delle reti sociali potremmo aumentare la capacità di mobilizzare e la rapidità al servizio delle migliori cause, hanno detto Renè, Gerardo, Antonio, Fernando e Ramon, gli ultimi quattro sono da 13 anni in prigioni nordamericane.
I Cinque, lodarono i passi dell’America Latina per l'unità, contro i grandi centri di potere.
Nella giornata conclusiva la Rete dell’università in solidarietà con I Cinque, con più di quattro mila membri in 72 paesi, ha confermato la volontà di incrementare la lotta per la liberazione di questi uomini che hanno compiuto l’unico delitto di voler difendere il loro paese dalla violenza dei gruppi anticubani nella Florida.
Ig/ro 

Contro Cuba il solito, triste mercato Usa dei diritti umani
Il meccanismo è sempre lo stesso, lo ha inventato l’ex Presidente nordamericano Ronald Reagan negli anni Ottanta e, come ha spiegato il premio Nobel per la pace Rigoberta Menchú, si tratta di un vero e proprio “mercato dei diritti umani”. È basato sulla costruzione mediatica di un incidente, uno scandalo, spesso falso, per gettare discredito su un obiettivo strategico per gli Stati Uniti - nel caso particolare, come altre volte, la Revolución cubana - e poi tenere in piedi questa tensione finché è possibile o l’accusa, col tempo, non crolla per inconsistenza.
Nel 2010 la campagna dopo la morte in carcere del discusso dissidente cubano Osvaldo Zapata a seguito di uno sciopero della fame durò quasi sei mesi, con grande dispendio di fondi pubblici Usa, e poi, non essendo riuscita a montare il discredito internazionale sperato, finì da un giorno all’altro, senza alcuna spiegazione.
Nel maggio 2011 fu montato, invece, il caso di Juan Wilfredo Soto, un altro presunto dissidente morto, questa volta, “per le percosse della polizia”. Ma il caso si smontò in un paio di giorni, dopo che perfino i suoi parenti più stretti testimoniarono ai media di tutto il mondo che il loro congiunto era stato ben curato ed era morto per le conseguenze di una pancreatite e di un’insufficienza renale.
Certo, è disdicevole e assolutamente inaccettabile che un cittadino di un paese decida, quale che sia il motivo della sua protesta, uno sciopero della fame e non si sia in grado di farlo desistere prima che muoia.
Ma il “nuovo” caso di questi giorni, quello della morte per polmonite di Wilman Villar, un presunto dissidente cubano della provincia di Oriente condannato, secondo la nota ufficiale del governo, a 4 anni per “oltraggio, attentato e resistenza”, ha tutte le caratteristiche per sembrare qualcosa di già visto e sentito e per farci domandare perché, anche nell’epoca del Presidente Obama, il governo di Washington continui a tormentare Cuba e a credere di poter risolvere, con i soliti mediocri metodi, la cinquantennale sconfitta finora subita nel tentativo di piegare la Rivoluzione ai propri obiettivi riguardo all’America Latina.
Non è solo importante verificare se, come pare insmentibile, Villar sia finito in carcere e poi condannato a 4 anni per aver aggredito sua moglie, provocandole lesioni al viso [tanto che a chiamare la polizia era stata la suocera] e per avere, successivamente, resistito all’arresto aggredendo gli agenti della Pnr [Policía nacional revolucionaria].
È triste, però, constatare che i dissidenti a Cuba, veri o falsi che siano, continuano a essere, mezzo secolo dopo, ancora merce in mano a gruppi che ne fanno traffico e che, in modo macabro, cercano di sfruttare perfino il disagio dei più fragili. Sembra infatti che a Villar, che si era avvicinato in carcere alla dissidenza, avevano fatto credere che l’eventuale appartenenza a gruppi controrivoluzionari gli avrebbe assicurato aiuti esterni nella sua lotta contro la condanna.
Quello che risulta insopportabile, però, è che, per esempio, il 2 novembre scorso, negli uffici del Dipartimento di stato a Washington, abbia avuto luogo, secondo quanto hanno affermato i mezzi d’informazione di Miami, una riunione tra Peter Brennan, direttore dell’ufficio che, nel ministero degli esteri Usa, si occupa di Cuba, e il presidente del Movimento Democrazia, Ramón Saúl Sánchez, erede, nelle operazioni contro l’isola, della famigerata Fondazione cubano-americana di Miami. In questa riunione Brennan avrebbe dato il suo via libera a un’azione dimostrativa da tenersi il 9 dicembre 2011, giorno in cui una flottiglia di piccole navi avrebbe messo in piedi un’iniziativa di disturbo basata per tre ore sull’emissione di luci e fuochi d’artificio con slogan visibili non solo da l’Avana, ma anche da Pinar del Río e da Matanzas, con l’obiettivo [pur avendo avuto dalla Casa Bianca la raccomandazione di non sconfinare nelle acque territoriali cubane] di creare tensioni, disturbi alla navigazione aerea e inquietudine in una parte della popolazione.
Non ha importanza che poi, date le pessime condizioni del tempo, questa buffonata non abbia avuto luogo. Quello che ci domandiamo è cosa sarebbe successo se la provocazione fosse avvenuta al contrario e fosse stata un’entità cubana a disturbare la sicurezza magari della Florida, o perché questi dispetti da infanzia capricciosa debbano tornare in auge, come ai tempi in cui gli Stati Uniti tentarono di far subire alla popolazione dell’isola la propaganda di Radio e Tele Martí, un’iniziativa costosa ma finita nel ridicolo.
Tutto questo a che cosa serve? Forse a far reputare Cuba ingombrante dalla nascente Comunità degli stati latinoamericani e dei Caraibi [Celac]? Crediamo che Hillary Clinton sappia perfettamente quanto il vecchio assetto dell’America latina sia tramontato e come il continente stia irrimediabilmente con Cuba.
Anche se la realtà politica è mutata dai tempi di Bush jr, pronto a stanziare nel 2008 150 milioni di dollari “per cambiare faccia a Cuba”, evidentemente gli Stati Uniti di Obama continuano a credere, come ho detto, in questo modo triste di fare politica e di cercare di cambiare un contesto dove falliscono da 50 anni. Non a caso, anche per questo 2012 di crisi totale il governo di Washington ha trovato oltre 20 milioni di dollari per tentare di destabilizzare la Rivoluzione. Lo ha scritto recentemente Eva Golinger, prestigiosa giornalista e avvocato con doppia cittadinanza venezuelana e nordamericana, con studio a New York, citando alcune notizie desecretate da Wikileaks, dove viene svelato che la logica degli Stati Uniti è quella di sovvenzionare, come negli anni Cinquanta, opposizioni di paesi governati da leader non approvati dalla Casa Bianca. Nel caso più recente si tratta di 5 milioni di dollari a chi, in Venezuela, si oppone a Chávez e i già citati 20 milioni a chi dovrebbe creare confusione, dissenso o quanto meno antipatia nei confronti della Rivoluzione cubana .
Ma anche stavolta i soldi sembra siano stati spesi male, perché la storia di Villar si è sgonfiata dopo appena 48 ore [dal 20 al 22 gennaio 2012].
In Italia, per esempio, ha voluto crederci solo Pierluigi Battista sul Corriere della sera, dimenticandosi perfino che, nel nostro democratico paese, nel 2011 ci sono stati 65 suicidi di detenuti nelle carceri, pur non essendoci al governo la deprecata Rivoluzione cubana. Forse è proprio perché l’opinione pubblica italiana, più che disinteressata è stufa di tanto vuoto cabaret che, deludendo Pigi, non reagisce come lui vorrebbe quando si affronta il tema Cuba.
Fare il giornalista è un mestiere che richiederebbe pazienza certosina per verificare quello che si afferma. Evidentemente quando Battista afferma stronzate tipo: “la Rivoluzione cubana ha mietuto in termini numerici più vite umane del regime di Pinochet”, o è in malafede o deve fare un “inchino” a qualcuno, o non ha avuto il tempo che hanno avuto comunicatori e cineasti prestigiosi come Michael Moore [Bowling a Columbine, Fahrenheit 9/11, Sicko], Oliver Stone [Platoon, Jfk, Nato il 4 di luglio, …] vincitore di 9 premi Oscar e autore di due documentari su Fidel Castro, o Steven Soderbergh [Erin Brockovich, Traffic, Ocean 11,12 e 13] e autore, tra l’altro, di due onestissimi e pregevoli film sulla vita di Ernesto Guevara, che, quando hanno affrontato il tema Cuba, lo hanno fatto, controllando fino all’esasperazione l’indiscutibilità della loro versione dei fatti, con una serietà sconosciuta all’ex-comunista Pigi.
D’altronde basterebbe domandare alle Agenzie dell’Onu sulla sanità, sull’educazione, sulla cultura, sull’ambiente e perfino sulla protezione civile, per sapere, al netto della propaganda di Usaid e Ned [agenzie della Cia], quale sia l’opinione che il mondo ha di Cuba, pur senza sottostimare errori e contraddizioni della Rivoluzione.
Insomma, il problema non è solo nei metodi scelti dai vari governi degli Stati Uniti quando hanno deciso che un paese è diventato fastidioso e non conveniente alla propria economia o alla propria supremazia politica, il problema sta anche nell’onestà intellettuale dei media, quindi dei giornalisti.
A novembre mi è capitato di leggere su l’Espresso, nella sezione dedicata al mondo, una lunga notizia titolata “È calato il gelo tra Castro e Obama”, dove, con molta circospezione, si affrontava il problema della carcerazione a Cuba del cittadino nordamericano Alan Gross “un contractor dell’agenzia Usaid [senza spiegare cos’è l’Usaid, ndr] condannato a l’Avana a 15 anni per crimini contro lo Stato. L’accusa è di aver installato reti internet clandestine per i dissidenti del regime, mentre gli Usa sostengono [e l’Espresso sembra crederci, ndr] che l’obiettivo di Gross era quello di aiutare la comunità ebraica dell’isola” [che invece sull’argomento ha preso le distanze]. L’Espresso poi spiega [si fa per dire] il secondo caso che avrebbe “gelato” le relazioni fra Barack Obama e Fidel Castro [di cui si dimentica però di segnalare che da 6 anni fa il pensionato a casa sua…]. È la storia di René Gonzáles, “una spia cubana [controllava gli anticastristi a Miami] liberata dopo 13 anni di detenzione, e che dovrà rimanere in Florida per i prossimi 3 anni in libertà condizionata. Una sentenza che ha scandalizzato Cuba perché espone Gonzáles alle ritorsioni dei nemici”.
L’Espresso in questa nota dimentica di dare alcune fondamentali indicazioni per capire non solo cosa si cela dietro alla notizia, ma anche chi ha ragione in questa diatriba, al di là del fatto che, per molti colleghi, gli Stati Uniti, per principio, sono sempre nel giusto.
Allora:
1] René Gonzales è uno dei cinque agenti dell’intelligence cubana che, alla fine degli anni Novanta furono infiltrati in Florida e smascherarono le centrali terroristiche che da lì preparavano e realizzavano attentati a Cuba. Nel corso degli anni le vittime sono state più di tremila, grossomodo quante quelle delle Torri gemelle.
2] I cinque fecero un buon lavoro, tanto che il governo de l’Avana si vide costretto a segnalare per via diplomatica a quello di Washington che queste centrali del terrore sul suo territorio erano pericolose anche per gli Stati Uniti, e che i faldoni con le prove raccolte erano a disposizione dell’apparato di sicurezza dell’allora Presidente Clinton, che inviò a Cuba tre funzionari dell’Fbi a cui fu consegnato il materiale. Ma invece di andare ad arrestare i terroristi, Washington decise di arrestare chi aveva scoperto i criminali.
3] Alla fine degli anni 90 un processo farsa a Miami [che, come hanno poi affermato insigni giuristi, doveva essere annullato per legittima suspicione e tentativo provato di condizionare i giudici] si era chiuso con condanne a pene tombali per i cinque cubani.
4] La Corte di appello di Atlanta, che ha giurisdizione su Miami, aveva annullato il processo in questione, mentre Alberto Gonzales, ministro della giustizia del subentrato Presidente George Bush jr, faceva pressione per portare da tre a nove i giudici d’appello e rivedere la sentenza. La questione era finita inevitabilmente alla Corte Suprema, che però si era rifiutata di intervenire, praticamente esautorando la corte d’appello di Atlanta.
5] I giornali e i network tv nordamericani ignorarono fino al limite del possibile questa storia inquietante, poi un gruppo di intellettuali e persone di buona volontà, con in testa Noam Chomsky [“il più prestigioso intellettuale del mondo”, come lo ha definito il New York Times] e, fra gli altri, l’ex ministro della giustizia Usa Ramsey Clark, il vescovo di Detroit Thomas Gumbleton e il premio Nobel per la pace Rigoberta Menchú, decise di acquistare una pagina proprio sul New York Times, pagandola 60mila dollari, per far conoscere questa storia ripugnante ai cittadini della nazione bandiera della libertà di espressione del mondo occidentale.
Quando si dice democrazia e si giura di agire in difesa dei diritti umani. Ci vuole una bella faccia tosta.
David Angeli, un nostro lettore che, per la sua competenza sulla storia dell’America latina, ma anche per la sua ironia, si è guadagnato il diritto di pubblicare su questo numero della rivista un interessantissimo saggio sui 500 anni della colonizzazione culturale del continente, ci ha provocato, quando ha offerto il suo articolo, con un post scriptum molto accattivante: “Se non dovesse interessarvi il mio lavoro, vorrà dire che proporrò a Yoani Sánchez un articolo sul fatto che la mancanza di lacci fucsia per le scarpe e di orsetti gommosi a Cuba sia un’imperdonabile colpa della Rivoluzione”.
Il suo saggio “Piedras que son dioses [Pietre che sono dèi, ndt]” vale la pubblicazione per la sua profondità storica, ma anche per il merito di offrire l’occasione a questo giovane intellettuale di segnalare come le rituali note di malumore della bloguera cubana, incapace di leggere anche solo un dettaglio positivo nelle scelte della Revolución, rappresentino la barzelletta dell’interpretazione di un paese.
Yoani Sánchez, infatti, è molto conosciuta all’estero ma poco in patria, un po’ come succede ai “soliti” dissidenti cubani, secondo il parere dello stesso Jonathan Farrar, capo dell’ufficio di interessi degli Stati Uniti a l’Avana che [come ha recentemente rivelato Wikileaks, pubblicando la sua corrispondenza col Dipartimento di Stato] non ha nessuna fiducia nell’efficacia politica della dissidenza tradizionale, pur foraggiata generosamente da decenni proprio dall’ufficio che lui ora sovrintende. Farrar è così scettico da proporre al dipartimento di Hillary Clinton di provare magari a dare ancora più sostegno alla giovane bloguera. Vedessi mai il cambio generazionale potesse funzionare.
Quasi tutti i media italiani, ovviamente, hanno eluso questi particolari dei temi che Wikileaks ha svelato. Penso, da vecchio cronista che in molti casi si tratti dell’inguaribile e patetica abitudine di non disturbare le strategie convenienti agli Stati uniti d’America e a quel mondo, il nostro, che spesso di queste imprese è costretto a essere complice, se non vassallo, come per le guerre in Medio Oriente, irrisolte dopo più di 10 anni, o per la “storiaccia” di Gheddafi.
Insomma, l’ennesimo caso di colonizzazione politica, che fa seguito, in Sudamerica, a quella spagnola e portoghese e poi a quella più recente, dell’economia neoliberale.
La realtà è sempre più grottesca se si considera che, dopo la crisi innescata dalla criminale finanza speculativa degli Stati Uniti, a rischiare di più il baratro è l’Europa. Messa al muro, oltretutto, da meccanismi come le agenzie di rating cinicamente pilotate proprio dal capitalismo Usa che mira ad atterrare l’euro.
Ed è significativo, poi, rilevare che i paesi capaci in qualche modo di salvarsi sono il Brasile avviato a essere la quinta potenza economica del mondo, l’Argentina che dieci anni fa stava per fallire e si è salvata quando ha messo alla porta quelli del Fondo monetario, il Venezuela che nazionalizzando il petrolio trova le risorse per resuscitare un’umanità che prima di Chávez non era iscritta nemmeno all’anagrafe, la Bolivia e l’Ecuador che riscrivono Costituzioni dove chi offende la natura è punito come chi violenta un essere umano, e perfino Cuba che, cocciutamente fedele al socialismo, ha un Pil che cresce [+2,4%] più di quello dell’Italia [+ 0,8%], ancora per poco una delle componenti del G8.
Chi ha per anni ridicolizzato Cuba, presuntuosa isola dei Carabi che voleva governarsi con la cultura e senza il culto del mercato, dovrebbe forse avere ora qualche perplessità, specie considerando che questa America Latina che opta per un’economia più sociale ed equa è stata, per sua stessa ammissione, influenzata dall’esempio di resistenza di Cuba.
Non è sorprendente che non se ne sia accorta la “bloguera antisistema” che incassa 250mila dollari di premi in due anni, solo perché i “cattivoni” del suo governo non le hanno permesso di andare personalmente a ritirarli, come volevano gli organizzatori di quelle kermesse.
È scandaloso davvero che non se ne siano accorti i cosiddetti operatori della comunicazione del mondo occidentale, pronti a seguire le appendici della Cia come Usaid o Ned in ogni loro campagna contro Cuba. A questi cronisti, d’altra parte, è sfuggito anche che ad Haiti, dagli Stati Uniti, sono arrivati decine di migliaia di marines ma non gli aiuti umanitari promessi, mentre invece continuano a funzionare i due ospedali da campo inviati il giorno dopo del terremoto da Cuba, realtà riconosciuta pubblicamente dal Presidente di quell’isola martoriata, Michel Martelly, ma sistematicamente ignorata o elusa dai nostri media.
È “sfuggita” anche la testimonianza della Coordinatrice residente dell’Onu a l’Avana, che dirige le agenzie, i fondi e i programmi delle Nazioni unite sull’isola. Barbara Pesce-Monteiro, romana, ex allieva del liceo Virgilio, laureata in Scienze politiche internazionali con master in Sviluppo rurale, che ha lavorato in zone calde, prima in Colombia e poi in Guatemala, Nicaragua, Messico e Angola, ha ricordato alcuni meriti dell’isola, come il fatto che “tutti, nessuno escluso hanno accesso all’educazione dalla prima infanzia e fino alle più sofisticate specializzazioni”.
Non è da poco per un paese del Centro America, che già occupava un prestigioso 53° posto nell’Indice di sviluppo umano, quando questo si basava solo su dati economici, aver raggiunto, ora che l’Onu ha inserito in questo tipo di valutazione non solo l’economia ma anche la salute e l’educazione, il 17° posto mondiale, precedendo, in America latina, Cile e Argentina
immagini inserite da internet da autore blog

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